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Negli scatti di Filippo M. Prandi anime tormentate, corpi consumati e le contraddizioni della società americana

18-12-2017

Di Silvia Santachiara

“Mi piaceva l’idea della morte come non-liberazione. Come se ci fosse ancora qualcosa ad aspettarti, un altro ostacolo da dover affrontare”. Mi guarda fisso e solleva un attimo il cappello. Poi mi indica una delle sue foto, “Heaven’s Upstairs”. “Riprende Last Days di Gus Van Sant, pellicola ispirata agli ultimi giorni di Kurt Cobain; nell’ultima scena il corpo è inanime e vestito- continua- mentre l’anima nuda esce dal corpo e si arrampica con fatica su una staccionata, come a dirigersi verso qualcosa che ancora l’aspetta”.

Anime che non hanno ancora finito di scontare le loro pene, ma anche corpi consumati dalla frenetica vita newyorkese, uomini che sbagliano ma vengono “abbracciati” dalla società, che diventano eroi dei nostri tempi. Le storie che Filippo M. Prandi racconta attraverso autentiche illusioni ottiche arrivano dalla cinematografia, ma anche dal suo sguardo sulla società americana e le sue contraddizioni. Vive a New York dal 2008 quando, terminato il Dams a Bologna ha scelto la New York Film Academy per continuare il suo percorso professionale. Artista e filmmaker, nel 2011 si è avvicinato alla fotografia, ma le parole digitale e post produzione sono bandite dal suo vocabolario. Perché deforma, sdoppia, dissolve, rimuove arti ingannando la percezione dell’osservatore solo attraverso la tecnica fotografica del “light painting”. E per dimostrarlo scatta in pellicola 35mm.

Photo: Filippo M.Prandi

Sei partito da Bologna per studiare oltreoceano Visual Arts ed in particolare regia e sceneggiatura. Toglimi subito una curiosità, perché non Los Angeles?

“Sono terrorizzato dai terremoti (sorride), quindi la California non faceva per me. Ma a parte questo New York, con tutti i suoi meriti e demeriti, è la città migliore per chi vuole affacciarsi al cinema indipendente. Si dice che a Los Angeles le persone siano più false e lo condivido, se non hai fatto film con le maggiori major non sei nessuno. A New York invece l’ambiente culturale è diverso, puoi incontrare filmmaker che non ti guardano dall’alto in basso, ma per quello che sei: un emergente. E nonostante questo darti una chance”.

Com’è stata la tua esperienza alla New York Film Academy?

“Ho imparato molto, il mio mentore e professore di regia e sceneggiatura è stato Claude Kerven. E a parte qualche invasato che pensava di diventare Spielberg in un anno e mezzo, l’ambiente è stato stimolante e pieno di accaniti filmmaker. Terminato il corso ho lavorato alla New York Film Academy come tecnico/assistente ai corsi di fotografia in 16mm, poi alla Optic Nerve, compagnia di produzione di John Kane dove mi sono occupato di video editing e sound design. Nel 2011 sono stato preso sotto l’ala dell’agente letterario Dennis Aspland, da allora si sono mosse molte cose e mi hanno opzionato la sceneggiatura di un film: “The Amytal Therapy”, con Valentina Caniglia alla regia e Annabella Sciorra come protagonista”.

Photo: Filippo M.Prandi

Da filmmaker a fotografo.

Non ero mai stato particolarmente interessato alla fotografia fino a quando un amico non mi ha fatto conoscere il light painting. Significa “disegnare con la luce” ed è una tecnica fotografica che richiede il buio totale, un’esposizione lunga e mentre l’otturatore rimane aperto si “dipinge” il soggetto illuminandolo con una sorgente luminosa (o torcia). Questo mi permette di inventare e deformare la realtà. E credo sia quanto di più affascinate ci si possa aspettare dalla fotografia. Scatto solo in pellicola 35mm anche per poter provare l’autenticità dei miei effetti speciali come gli sdoppiamenti, le semitrasparenze, la rimozione degli arti; non a caso le mie mostre sono titolate “L’ingannevole deformazione del tempo”. Voglio risvegliare l’occhio da tutte queste immagini digitali ultra- ritoccate. Non utilizzo quindi assolutamente ne post produzione, ne Photoshop. Perché quella è graphic-art, non fotografia”.

Photo: Filippo M.Prandi

Il 2014 è stato l’anno della svolta.

“Ogni universo artistico ha le sue logiche e le sue politiche, che devi conoscere. Da filmmaker non volevo affrontare un nuovo contesto, quello della fotografia, ma poi mi è stata commissionata una foto da Michael Shah, CEO della Shah Capital e mi sono lanciato. Si trattava della nota foto di Philippe Halsman con Salvador Dalì, che ho rifatto utilizzando la mia tecnica e la stessa modella in tutte e otto le pose. Non è mai stata esposta in nessuna mostra perché gli ho dato il negativo e l’esclusiva, ed è a casa sua, a Manhattan. Questo mi ha spronato a proseguire e la mia prima mostra è stata a Bologna al Museo Orfeo di Eugenio Santoro, una home gallery che offre agli emergenti ciò che non offre nessun altro. Poi ho contattato tutte le gallerie di Manhattan e fino al 2018 mi rappresenterà la Viridian Artists, dove ho già fatto la prima personale”

Nei tuoi scatti emerge uno spaccato della società americana, quanto questo modello ha influenzato la tua arte?

“Moltissimo. E diversi miei soggetti non sono modelle professioniste ma bariste di Manhattan che si sono prestate agli scatti. Gli americani, ad esempio, lavorano fino allo sfinimento e in “Too Much Work, Too Little Fun” ho voluto rappresentare una ragazza al pc di sabato sera mentre “l’altra lei” le suggerisce di uscire a divertirsi. E ho scelto un corpo estremamente magro proprio per mostrare il consumarsi nella frenetica esistenza americana. “Emergency Exit Only”, della serie “Missing in NYC”, invece arriva dall’impressionante aumento nelle metropolitane e sulle strade di New York di locandine di persone scomparse. Il soggetto fotografato non sa di essere morto fino al momento in cui vede il suo volto su una di queste locandine. E solo allora inizia a dissolversi, a scomparire, cercando comunque di aggrapparsi a qualcosa per tentare in ogni modo di rimanere nel mondo reale. Mentre “Learning About Sins / Sinning” è una provocazione verso gli aspetti più ridicoli della cristianità in America, basta pensare ai tele-predicatori… L’idea mi è venuta guardando un talk show in cui una suora raccontava del suo passato da prostituta. Il Italia se sbagli e provi a redimerti vieni accettato solo di facciata, mentre negli USA vieni abbracciato, è quasi meglio che non aver mai sbagliato. Anche qui c’è il tema del doppio: una ragazza legge la Bibbia, mentre “l’altra lei”…non importa che dettaglio, ma spero di non finire all’inferno per questo scatto (sorride)”.

Photo: Filippo M.Prandi

La morte è un tema ricorrente.

“Ci penso, come tutti, ma non ne sono ossessionato. Sono cattolico ma mi faccio domande, invece di prendere per buono ciò che mi è stato insegnato, lo metto in discussione”.

Altra fonte di ispirazione è il Cinema.

“Si, “Imaginary Twin Sisters” è una versione più inquietante ed erotica delle gemelle di Shining, mentre “Venus de Milo” è ispirata a “The Dreamers” di Bertolucci. In una scena del film Eva Green indossa lunghi guanti neri che le coprono gli avambracci, ma essendo davanti ad una parete nera sembra senza braccia. E poi mi ero innamorato di Eva, se mi avesse chiesto di sposarlo ora il mio cognome sarebbe Green…(sorride). Non solo le ispirazioni arrivano dal cinema ma anche la tecnica che utilizzo, il light painting, e le pose multiple richiamano proprio l’idea di azione, di movimento”

Sono passati dalla tua macchina anche famosi registi, sceneggiatori, giornalisti…

“Si, ho realizzato una serie di trittici alle celebrità. Si tratta di tre pose all’interno della stessa foto. In quella centrale l’artista guarda dritto nell’obiettivo e si mostra al mondo per quello che vuole apparire, mentre nelle due pose laterali guarda se stesso per quello che è. Il primo fu il giornalista e scrittore Antonio Monda, mentre il secondo Patrick McGrath, romanziere e sceneggiatore. Lo conobbi ad un evento organizzato da Monda, terminato nel ristorante di Giovanni Rana a Chelsea. E tra un tortellino e uno scotch gli chiesi se voleva far parte della serie “Artist”. Da qui in poi è stato sempre più facile…oggi ne fanno parte Claudio Fragasso, Pupi Avati, Gianfranco Lelj e tanti altri…”

Photo: Filippo M.Prandi

Il tuo ritratto invece è una sorta di manifesto contro la “selfie generation”

“Se non li odi, non sei un fotografo (sorride). L’ho chiamato “Self portrait #fuck yourselfie” perché nell’inquadratura ci sono io, senza volto, mentre faccio un “dito medio” al mio selfie, in cui faccio un “dito medio”. Un risultato ottenuto dopo otto mesi e dodici tentativi”.

Photo: Filippo M.Prandi

 Qual è la tua più grande paura?

“Di non riuscire a vivere del mio lavoro. Il mondo è pieno di ottimi professionisti che non riescono ad emergere. E non certo perché siano dei falliti, detesto il binomio vincente/perdente, ma semplicemente perché non sempre capita l’occasione giusta”.

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