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Quando Vivian Maier non era su Google. A Palazzo Pallavicini in mostra 140 scatti della tata fotografa

03-03-2018

Di Laura Bessega

Chi era davvero Vivian Maier?

É forse la domanda che circola più spesso sul suo conto.

Lei probabilmente avrebbe risposto: “I can be very difficult”.

Per molti è una donna misteriosa, un enigma senza soluzione.

Una bambinaia che ha prodotto 150.000 foto in 50 anni, scattate per lo più con una Rolleiflex, macchina piuttosto complessa. Non con una digitale. Più registrazioni audio, filmini e appunti.

Eclettica, bizzarra, curiosa, solitaria e ironica.

Collezionista seriale e compulsiva, ha accumulato di tutto: cappelli, vestiti, scarpe, giornali, negativi, macchine fotografiche, super 8 e oggetti vari. Sono finiti tutti in un magazzino. In età avanzata, in seguito a gravi difficoltà finanziarie che hanno causato ritardi nel pagamento, sono stati venduti all’asta. Il fortunato che li ha scoperti, per caso, è stato John Maloof, figlio di un rigattiere di Chicago. Nel 2007, mentre cercava del materiale iconografico per un libro su questa grande città dell’Illinois, ha acquistato senza saperlo il contenuto di un box per 380 dollari.

Dentro c’erano migliaia di negativi e rullini da sviluppare. Dentro c’era una potenziale fotografa e artista.

John se n’è accorto e ha contattato il Moma, la Tate e vari istituti culturali affinché potessero comprare o visionare tutto il materiale. Non erano interessati. Così ha optato per qualcosa di più moderno. Ha pubblicato alcune foto su Flickr all’interno di una discussione di street photography, genere fotografico che riprende i soggetti in luoghi pubblici e nella vita di tutti i giorni, e a poco a poco l’interesse è diventato virale.

Scrive: “Ho appena acquisito migliaia di foto di questo fotografo, cosa devo fare con questo materiale?”

In un paio di minuti qualcuno risponde: “Mettile in un museo d’arte”.

Dieci secondi dopo qualcun altro commenta: “Qualunque cosa tu faccia, non metterle in museo d’arte”.

Niente curatori, niente gallerie. Un ribaltamento del processo con cui solitamente un artista diventa tale. La gente in qualche modo ha deciso, democraticamente, che lei fosse una fotografa. E’ stato un fenomeno davvero unico. Oggi può essere considerata una street photographer ante litteram.

Per 40 anni ha lavorato come tata, ha scattato instancabilmente quasi ogni giorno,

E’ passata di casa in casa, quasi nevroticamente, perché aveva bisogno della sua privacy.  Nel tempo libero era solita girare per le strade di New York e Chicago, a volte con 2 macchine al collo e scattando con entrambe. Spesso in compagnia dei bambini a cui faceva da baby-sitter, li portava in giro nei quartieri malfamati, nelle discariche, nei macelli, negli angoli bui della città. Poi prendevano un treno e andavano in centro a fare picnic nel parco.

Come se giocare a fare la bambinaia le permettesse di scattare le sue foto.

Ma guai a entrare nel suo bagno! Ne aveva fatto la sua camera oscura.

Vivian Maier, la bambinaia fotografa o la fotografa bambinaia? Probabilmente entrambe.

Avventurosa e coraggiosa, ha viaggiato molto da sola, condizione quantomeno insolita per l’epoca. É andata da Los Angeles a Manila, passando per Bangkok, India, Yemen, Egitto, Italia, Canada e Francia, la sua patria d’origine.

I suoi soggetti preferiti erano donne, bambini, anziani e indigenti.

E, naturalmente,

sè stessa.

Non disdegnava però esponenti della borghesia cittadina che ritraeva, a differenza dei meno abbienti, invadendo il loro spazio vitale di proposito, come per coglierli di sorpresa, provocando spesso una reazione di fastidio o indignazione sui loro volti. Lo sfondo era sempre la strada, palcoscenico della vita.

Non aveva amici, fidanzati, parenti. Estremamente riservata ma non introversa, era una di cui la gente non si è dimenticata anche a molti anni di distanza.

L’uso della macchina fotografica era una chiave per costruire una relazione tra lei e gli altri, era probabilmente l’unico modo che aveva per poter interagire con loro. Non mostrava le sue foto a nessuno e ne sviluppava solo poche. Era interessata allo scatto in sé perché, attraverso la fotografia, ritraeva se stessa. Le sue immagini sono la sua vita, ognuna parla di lei in modo diretto e spontaneo. Ha scattato così tante foto per trovare, come ha ammesso, il suo posto nel mondo.

Dopo aver conosciuto la storia di Vivian ci si chiede se non si è più in grado di guardare la gente intorno a noi nello stesso modo. Quanti grandi lavori di arte sono stati persi? Quanti grandi artisti non scoperti sono lì fuori, per le strade, in mezzo a noi? Chi era Vivian Maier? Era una bambinaia, una fotografa, un’artista. Era una di noi.

Quando uno dei bambini le ha chiesto se avesse paura della morte, lei ha risposto: “ Beh immagino che niente sia fatto per durare in eterno. Dobbiamo fare spazio ad altra gente. E’ una ruota, ci devi entrare, vai fino alla fine e poi qualcun altro deve avere la tua stessa opportunità”. E proprio la morte le ha dato il successo che non ha mai avuto nella vita. Ha finito i suoi giorni in un letto di ospedale in seguito a una caduta sul ghiaccio, nel 2009, mentre John stava cercando disperatamente informazioni sull’autrice di quel materiale comprato per caso ad un’asta a Chicago.

Se volete saperne di più, Anne Morin di DiChroma Photography ha selezionato 120 immagini in bianco e nero degli anni ’50 e ‘60 e una ventina a colori degli anni ’70. In collaborazione con Palazzo Pallavicini, ha portato Vivian Maier a Bologna.

Dal 3 marzo al 27 maggio, a Palazzo Pallavicini, in via San Felice 24.