Ogni essere umano, in quanto tale, sente la necessità di cercare il proprio spazio d’appartenenza tra le cose e le persone e, qualora avesse la fortuna di trovarlo, la scommessa maggiore sarebbe quella di riuscire a occuparlo. Minne Vaganti – oltre chi scrive – sta ancora cercando il suo di spazio, una dimensione autentica in grado di ammettere ed esaltare la sua identità femminile. Ma questa probabilmente è una ricerca destinata a fallire, e magari è meglio così: qualsiasi spazio confinato le starebbe stretto e finirebbe per rimanerci incastrata. In fondo, le basta rivendicare a se stessa la facoltà di compiere scelte libere e il privilegio di autodeterminarsi.
Io e Minne Vaganti ci siamo incontrate in un grigio pomeriggio al tavolo di un bar; sullo sfondo le serre dei Giardini Margherita. Non appena la nostra conversazione volse al termine, intuii di aver appena inteso cosa accade quando la fiera femminilità, la gentilezza e la malinconica autoironia di una donna in cerca di spazio trovano espressione e riscatto nell’arte figurativa.
Minne Vaganti, nome d’arte di Irene Faranda, è una giovane pittrice e illustratrice trevigiana laureata in pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia e trasferitasi da qualche anno a Bologna, col cui tessuto sociale e urbano ha intrecciato una vivace attività di autoproduzione artistica. Realizza disegni e dipinti su carte perlopiù di grandi dimensioni, servendosi di varie tecniche pittoriche quali acrilici, matite, carboncini e squeezer, ovvero flaconi d’inchiostro spremibili tipici della street art.
“Mi sento a metà tra una pittrice e un’illustratrice: se, da una parte, il mio approccio ai materiali e alla tecnica è senza dubbi pittorico, la scelta di sintetizzare al massimo il ragionamento alla base delle mie creazioni sotto forma di figure umane praticamente stilizzate fa di me un’illustratrice consapevole”.

Foto di Francesco Bortolussi
Irene ha presentato per la prima volta nel 2018 le sue opere in mostre comuni distribuite tra Treviso, Padova, Venezia e Milano, finché nel 2023 il PAFF! (Museo Internazionale del Fumetto di Pordenone) le ha dedicato un’intera sala espositiva. Nello stesso anno ha anche avviato un’attiva collaborazione con il collettivo artistico SubSculture Arts, allestendo una piccola pinacoteca sotto la “Galleria Alzaia” di Treviso, e ha inaugurato la sua terza esposizione personale “Dove corrono tutti?” in occasione del Treviso Comics Book Festival.
“Eppure”, mi ha confessato Irene ad un certo punto, “arrivata a Bologna mi sono subito affezionata alla sua cultura underground e ho scoperto una dimensione che fino ad allora mi era sconosciuta, cioè quella dell’autoproduzione artigianale promossa nei market locali e nei festival cittadini. Ho preso e tuttora prendo parte a numerose fiere e mercati come l’’Era ora market’, nel cortile interno del centro culturale Labas, e partecipo agli eventi culturali di ‘Officina pop’ o del ‘Sundonato festival’: in contesti come questi la connessione che si crea con la gente, spesso inesperta d’arte, è incredibilmente autentica, e in una realtà come la nostra, sconvolta da un consumismo capriccioso e angosciante, la creazione indipendente è davvero la chiave giusta”.
L’intera produzione artistica di Minne Vaganti è una sorta di diario personale e anche collettivo che traduce in stilizzazioni audaci e visibilmente emotive riflessioni interiori sulla quotidianità e sulla società che la circonda.
Scorrendo tra le riproduzioni fotografiche delle sue opere presenti sui social, si osservano corpi nudi, sia maschili che femminili, senza tratti del volto definiti e resi con linee essenziali e ben marcate che si stagliano in modo bidimensionale su sfondi monocromatici o fittizi.
Ma cosa rappresentano? Irene mi ha spiegato che i suoi soggetti affrontano una sfida costante, che è quella di riuscire ad esprimere la propria essenza umana e creativa all’interno di una realtà in cui si sentono troppo spesso ingombranti e in cui, non di rado, rimangono tragicamente incastrati. Tutti i tentativi da loro compiuti per conquistare il giusto spazio e rivendicare un’identità sono atti di resistenza silenziosi capaci di sconvolgere le verità assolute di questa società imperfetta. ‘Creare è resistere. Resistere è creare’, diceva Stephan Hessel.
“In poche parole, le mie figure sono mine vaganti. Per questa espressione mi sono ispirata ad un film del 2010 di Ferzan Özpetek intitolato, appunto, ‘Mine vaganti’, che narra di una storia d’amore omosessuale a confronto con i drammi di una tradizionale famiglia leccese. Il regista ha spiegato che il titolo mira a rappresentare la libertà e l’indipendenza perseguite dai due fratelli protagonisti, entrambi omosessuali, ma secondo me la vera mina vagante sulla scena è la nonna dei due ragazzi, una donna imprigionata nel ricordo di un amore perduto, una donna che ha saputo compiere scelte difficili ma che, ciononostante, vive una vita costantemente dolente”.
A questo punto una domanda mi è sorta spontanea. Che nesso c’è tra le mine e le MinNe Vaganti?
“Io all’inizio disegnavo solo uomini stilizzati perché credevo fossero più credibili e consistenti rispetto alle donne…poi mi sono resa conto di due cose fondamentali: la prima, che ero stanca di raffigurare sempre figure maschili; la seconda, che ero io, proprio a causa del mio essere donna, a sentirmi ingombrante e ad aver bisogno di più spazio. Anzi, eravamo noi tutte. Io mi reputo fortunata, sono stata cresciuta da una madre che mi ha imposto un’unica fondamentale regola, essere libera. Poi, però, crescendo mi sono ritrovata a dover fare i conti con certi schemi e dogmi sociali, finendo per adattarmi nel poco spazio che viene solitamente concesso alle donne per essere se stesse. Dal quel momento ho avvertito sempre più necessaria la raffigurazione femminile, e ho deciso che le mie mine vaganti sarebbero diventate minne vaganti: ad esse il compito di portare disordine, di prendere le cose e metterle in posti dove nessuno vuole farle stare, di scombinare tutto, di cambiare i piani.
In quali occasioni nella tua vita hai creduto non ci fosse abbastanza spazio per te?
“In un’infinità di circostanze mi sono sentita così”, ha ammesso Irene portandosi i lunghissimi capelli neri dietro alle orecchie e accennando un sorriso. “Innanzitutto, sono cresciuta in un paesino vicino Treviso particolarmente chiuso e tradizionalista, nel quale la mia appartenenza ad una famiglia fieramente femminista non era troppo tollerata e l’inclinazione alla pittura non era vista di buon grado dalla gente del posto che, anzi, considerava l’arte una perdita di tempo. Quindi mi sono trasferita a Venezia a studiare, sebbene anche in Accademia il mio modo di esprimermi non venisse sempre compreso. Per questo motivo, ero solita disegnare piccolissimo finché rivendicare spazio non è diventato anche un atto concreto e funzionale alla mia arte. Infine, sentivo costantemente addosso la condanna altrui per il mio modo di vestire, così esclusivo e appariscente: l’affermazione dello spazio per le donne sembra quasi diventata una cosa retorica e invece io dico che non lo è per niente, e questo mi genera una forte malinconia”.
Quali atti concreti della tua vita puoi considerare mine vaganti?
“Vorrei partire dalle persone, piuttosto che dagli atti: le donne della mia famiglia sono i miei più grandi esempi viventi di mine vaganti, in particolare mia madre. Lei è una donna attivamente controcorrente e incurante delle malelingue. Mi ha cresciuta in piena libertà emotiva, insegnandomi ad essere gentile senza dover chiedere permesso agli altri per occupare il mio spazio. Detto ciò, vivere di autoproduzione è una scelta da mina vagante. Essere femminista nel concreto e in ogni aspetto della vita – non solo quando fa comodo o quando la gente si aspetta che io lo sia – vuol dire essere mina vagante. Una donna che nelle sale d’arte porta altre donne e che si veste come vuole è una mina vagante. Insomma, per me essere mina vagante è soprattutto dipingere quello che dipingo io e scrivere quello che scrivo io”.
Già, scrivere, perché Minne Vaganti realizza moltissimi libretti autobiografici in carta riciclata nei quali combina disegni stilizzati con brevi didascalie provocanti e dense di significato: altra prova della sua dialettica persuasiva.
Quando dipinge Irene parte sempre da un ragionamento scritto che quasi mai rende noto e che successivamente traduce in immagini. Tuttavia, nel momento in cui decide di rendere noto il ragionamento dal quale ha origine la creazione, ecco che riporta quelle due o tre frasi evocative tra le pagine dei suoi libretti. “Alle mostre sono solita esporre ciascuno dei miei libretti aperti e ho notato che la gente è sempre molto coinvolta da essi, ma legge le parole e non le figure: questo fatto, in realtà, lo considero positivo solo a metà, perché se da una parte apprezzo che la gente possa sorridere leggendo i miei libretti, dall’altra temo quanto la gente oggi sia assuefatta alla dimostrazione, alla spiegazione delle immagini e resti impigliata nella pigra incapacità di analizzarle. Già da piccoli, a scuola ad esempio, non ci aiutano a soffermarci a sufficienza sulla lettura critica delle immagini, e questo da adulti ci spinge sempre più sull’orlo dell’analfabetismo funzionale”
Tra i numerosi libretti mostratemi da Irene, uno in particolare (dal titolo ‘Quando penso troppo’) mi ha colpita e quasi turbata. Circa a metà del libricino in questione, infatti, si svolge un’illustrazione tra due pagine adiacenti, la quale rappresenta una figura femminile accovacciata al suolo e con la testa china. Accanto si legge ‘Non pretendeva / di essere un capolavoro’.
Ammettere la propria normalità e legittimare il fallimento sono un trionfo personale e una conquista sociale. Nella nostra realtà sembra che tutti corrano da qualche parte, senza mai porsi domande o compiere scelte critiche. Si corre e basta sulla scia del successo tangibile e vanitoso che spesso, una volta raggiunto, si polverizza.
“Io sento di avere un privilegio e una grossa responsabilità sociale nel raccontare qualcosa attraverso le immagini. Pertanto, ci tengo che la gente sappia quanto è benefica la normalità. Mi sono sempre dissociata dalla competitività che invadeva l’Accademia e mi dissocio da quella che coinvolge gli ambienti della produzione artigianale bolognese. D’altronde, non ho la presunzione che la mia arte debba piacere a tutti. Basta che convinca me e quelle persone che vi ritroveranno rifugio o un porto sicuro. Ciò che auguro alla mia arte è di raggiungere chi ha bisogno di dare voce e a se stesso e alla sua malinconia.
Irene alla finestra e tanta gente per la strada / Il mondo passa accanto a lei e non la sfiora cantava De Gregori nel 1978.
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