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Pensi di stare meglio? La terapia (e molto altro) nelle illustrazioni di Edoardo Massa

29-07-2025

Di Beatrice Paganelli

È un pomeriggio qualunque. Alternando qualche sbadiglio, mi dedico all’alienante (ma così accattivante) attività di zapping tra profili Instagram, post e storie un po’ annoiata dalla solita monotonia patinata e fasulla della quale sono imbottigliati i social, quasi fosse una strada trafficata e fumosa. Mentre mi impegno a richiamare alla mente tutti i buoni motivi per cui sarebbe il caso di tornare a pensare alle mie responsabilità, ecco che forse mi imbatto – per caso – in qualcosa che cattura, ora sinceramente, la mia attenzione. Interessante perché diverso. Perché mi suggerisce un sospetto di autenticità. E in mezzo a una palude di finzione anche un sospetto basta per incuriosire.

Così, scopro l’esistenza di Edoardo Massa, nato a Carate Brianza nel 1993, insediato a Bologna da 4 anni e mezzo. Fumettista, illustratore e scriber. Finisco per farmi assorbire dalle sue vignette, dai suoi racconti, dai suoi personaggi. Continuo a “scrollare” e a leggere, non arrivo ad averne abbastanza. Perché? Perché, inaspettatamente, inizio a percepire una sensazione di profondo rispecchiamento. Trovo riflessa e raccontata una vulnerabilità del vivere che riconosco. E che mi spiazza.

“Io ‘pecco’ di autobiografismo nel mio lavoro”, mi racconterà qualche mese dopo, in un caldo pomeriggio di luglio, davanti a un caffè. E questo pescare dal personale, da ciò che realmente preme, è la cifra che, a mio parere, consegna verità a tutto ciò che Edoardo realizza per mezzo del suo lavoro.

Ci siamo fatti una chiacchierata, sì. Profonda ma leggera: un drum sempre acceso nella mano e la voglia di non prendersi troppo sul serio.

A quando risale, nella tua vita, il primo momento in cui hai intercettato questa tua inclinazione al disegno? È legato a qualche ricordo in particolare? Quali sono stati i tuoi primi soggetti?

“Dall’infanzia credo non ci sia persona che non abbia mai disegnato. La differenza è che non ho smesso. I temi che disegnavo a tre anni erano anche più pazzerelli. Non c’è mai stato un tema preciso, è sempre stato corrispondente all’età che vivevo. Credo poi che disegnare sia una pratica accessibile a tutti. Chi ha smesso, può sempre ricominciare”.

Mi racconta del suo approdo al liceo artistico del paese più per attrazione verso un certo tipo di immaginario ad esso legato, che per cosciente volontà di intraprendere un primo vero e proprio percorso di apprendimento. Durante l’orientamento in terza media ricorda di aver pensato a quante bellissime scritte sui muri. E poi la musica, lo skateboard. Tutto assolutamente punk.

Ad una prima intuizione segue poi la volontà di coltivare una passione che vedi crescere: cosa ti ha spinto a farlo? E che cosa, in un secondo momento, ti ha portato a pensare che potesse diventare il tuo lavoro?

“Durante gli anni del liceo mi sono reso conto che era l’unica cosa per cui sentivo urgenza e questa spinta al disegno era diventata talmente invasiva che mi sorprendevo intento a disegnare nel mezzo delle lezioni di matematica, di scienze… L’università ha avuto poi lo stesso orientamento: ho studiato presso l’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Urbino per la triennale e la specialistica. A volte l’idea che la passione diventa un lavoro te la ritrovi un po’ cucita addosso perché arriva un momento in cui inizi ad incontrare dei doveri, delle responsabilità e dei bisogni, soprattutto di natura economica, che devono essere soddisfatti”.

Immagino che quello dell’illustratore sia un lavoro complesso. Per la tua esperienza, cosa permette di non cedere a compromessi che svierebbero da ciò che senti urgenza di esprimere con la tua personale creatività?

“Ma invece scendere a compromessi la trovo una cosa molto utile e interessante. Il mio, in fondo, è in gran parte un lavoro di team, non ho a che fare solo con me stesso. Poi c’è anche un ipotetico pubblico con cui fare i conti. Tutto questo rimette in discussione l’idea che le tue urgenze siano indispensabili. Lo sono, certo, per te.  È necessario che tu le segua e le coltivi. Ma allo stesso tempo il mio universo personale deve trasformarsi nel dialogo con il pubblico. In altre parole: deve diventare un personale universale”.

 

Edoardo collabora dal primo numero con la rivista The Passenger (Iperborea) e ha lavorato, con i suoi disegni, anche a teatro, fra gli altri negli spettacoli “Dove sono le donne” di Michela Murgia e “I confini non esistono” di Matteo Caccia e Stefano Mancuso. Tra le mille e mila attività in cui Edoardo si destreggia e per le quali presta la sua vena creativa attraverso il disegno, si annovera anche la stesura di un libro (o graphic novel per i più nerd), sulla copertina del quale campeggia una perentoria domanda: PENSI DI STARE MEGLIO? Ricordo perfettamente quando presi quel libro in mano per la prima volta, prima di leggerlo. Quella domanda non mi lasciò indifferente. Rinnovò, anzi, la curiosità. Che altro avrebbe avuto da dirmi?

Dipanando un racconto intenso e accattivante, Edoardo tiene saldamente i fili della sua marionetta: il suo alter ego che si muove, parla, cade e si rialza sotto il suo sguardo vigile. È una storia che ha dentro tutto ciò che è “nucleo caldo” della vita (chiedo in prestito a Edoardo un’immagine più volte da lui evocata nel corso della nostra chiacchierata): amicizia, amore, perdita, accettazione, gioia e dolore.

In mezzo a questi eventi, nel tentativo di abbracciarli tutti in unità, figura Edo e il racconto dei suoi primi due anni di terapia.

Nel tuo libro Pensi di stare meglio? racconti una parte estremamente personale della tua vita, segnata da un momento di rottura e di profonda vulnerabilità. Qual è stata la motivazione che ti ha portato a rendere pubblico un aspetto tanto intimo della tua esperienza?

“Quello che ho pensato è che potesse essere una storia interessante e utile non solo a me ma a tutti. Ho iniziato a crearmi degli “ambienti” diversi, tra cui uno personale che mi permettesse di raccontare cose che a me smuovevano. Raccontare, cioè, di amiche e amici, partner e situazioni complesse…. E mentre lo facevo mi rendevo conto che mi emozionava. Alcuni disegni mi commuovevano per il loro tema perché mi davano la possibilità di stare su quel pensiero, di metabolizzarlo ancor di più. A quel punto, il dovere di ogni autore, è quello di non lasciare quel racconto circostanziato ma di elaborarlo, introdurlo e scriverlo anche per altri”.

Potrei sintetizzare la mia lettura di “Pensi di stare meglio?” in due emozioni: lacrime e risate. Una duplice reazione che unisce il profondo rispecchiamento a una leggerezza capace di affrontare anche gli aspetti più dolorosi attraverso un uso sottile dell’ironia. Qual è il tuo rapporto con l’ironia? E secondo te, in che modo l’ironia può farsi spazio e compenetrare la sofferenza?

“Io penso che l’ironia, lo humor, compenetrino sempre. Non credo esista un momento esclusivo, in cui affronti la vita a compartimenti stagni e per cui affermi “oggi sono triste, devo rimanere triste”. Posso, invece, sentirmi libero di alternare momenti di tristezza, ironia, simpatia, gioia? Ognuno si prende il proprio tempo – che può essere dilatato a piacimento – per affrontare una situazione tenendo conto di tutte le sue sfaccettature. Quel ricordo doloroso me lo posso portare per sempre, è il nucleo caldo dell’evento del ricordo e della storia.  Le cose più drammatiche sono importantissime, te le porti avanti. Capitano poi nella mia vita, che è una vita dopo tutto fortunata e agiata, fatti talmente straordinari (cioè fuori dall’ordinario) che sfociano nell’assurdo, e l’assurdo è terreno fertile per lo humor, per il dissacrare”.

Segue dicendomi che in tutte le cose straordinarie c’è l’inizio di una storia. Più esse tendono a complicarsi, più la trama è accattivante: “Io che esco di casa e vengo a prendere un caffè con te è l’inizio di una storia – noiosa. Io che esco di casa per prendere un caffè con te mentre tu cadi in bici è inizio di una storia – medio noiosa. Se poi il caffè ti si rovescia addosso su un vestito totalmente nuovo che avevi comprato per il matrimonio della tua amica, mentre io vengo derubato… Vedi? Già solo raccontandola al bar funziona di più”.

Cosa significa per te condividere questi temi così personali, farli diventare di tutti? Qual è la risposta che ricevi da chi ti legge?

“Quello che vuol dire per me? Intanto, se non lo fai con il gusto, allora davvero non farlo. Con gusto e con pensiero, con termini e condizioni, con una struttura per cui comprendi chi sei, quello che è importante, quello che vuoi rivelare e quello che è interessante rivelare. Non tutte le storie ha senso raccontarle, non tutto quello che è assoluto per te lo è anche per gli altri. Quello che per me vale un centimetro magari per gli altri vale un chilometro e viceversa. Diceva Giovanni Truppi – grandissimo Giovanni Truppi, mio idolo. I feedback sono stati positivi e onesti: ad alcuni è assolutamente piaciuto, con altri si è aperto un dialogo. Sono contento”.

Com’è stato occuparsi della cura di un libro?

“”Pensi di stare meglio?” è un libro che ho scritto per me, pensandolo però per altri. In questo passaggio dal personale al pubblico è stato fondamentale l’aiuto di Carlotta, la mia editor, con la quale questo libro è stato creato e costruito, e l’aiuto di amiche e amici ai quali è stato sottoposto e dai quali è stato revisionato. Un vero e proprio lavoro di team in cui ho imparato a donarmi e a prendermi meno sul serio, ad abbandonarmi un po’ e a lasciare spazio agli altri. È stato molto difficile finirlo. Una volta concluso, ci sono stati due mesi in cui pensavo che avrei voluto rifare tutto. Ma no, bisognava pubblicare. Io mi sono accorto, nel momento in cui lo volevo rifare tutto, che era finito, non era più mio. Avevo esaurito totalmente quella narrazione. Mi sono detto: ora è del pubblico”.

E Bologna? In cosa ti ha cambiato (se ti ha cambiato)?

“Bologna è una città unica. Credo che ogni stereotipo che le si accosta sia in fondo corretto: c’è un dialogo molto diretto con le persone, con le situazioni al bar, in piazza, agli eventi… Dunque, credo che la parte di Bologna che include sia abbastanza reale come credo sia reale la parte di Bologna che è parco giochi in cui devi stare attento che ti ci perdi. Non so se posso dire che Bologna, in quanto città, mi abbia cambiato. Credo piuttosto che ciò che faccia la differenza sia il periodo in cui ne fai esperienza: io la sto vivendo nel periodo tra i 28 e i 32 anni che è diverso da quello dei vent’anni. Su questo non ho ancora una risposta certa: mi sento di doverla ancora vivere”.

Mi confida che per il futuro c’è fermento: nuovi progetti in arrivo, qualcuno anche legato al teatro. Edoardo lavora con Mismaonda, società di produzione e gestione di eventi dal vivo, in particolare per l’attività di scribing, una pratica per cui il disegno prende vita in tempo reale, intrecciandosi con i gesti e le parole del performer in scena.

“C’è fermento, ma c’è anche tanta rincorsa prima del salto. Per condividere qualcosa deve arrivarne l’urgenza. Per questo, devi saper attendere la spinta”.

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