Sono seduta in seconda fila, così vicina che potrei toccarli, quando Eirik Glambek Bøe e Erlend Øye staccano i jack dalle chitarre, scavalcano la trincea di amplificatori e monitor e si appostano, unplugged, in bilico sul cornicione del palco del Teatro Manzoni. È sabato 30 ottobre, seconda data sold-out di Bologna, organizzata dal Covo Club, incipit del tour italiano dei Kings Of Convenience portato in quattro date da DNA Concerti.
La prima data del cartellone a Catania è stata rimandata e così l’intero centro-Italia si è radunato nella platea bolognese, fulcro ancora una volta di un fermento artistico che quasi non riconoscevamo più. Siamo a fine concerto, le luci si abbassano – davano fastidio a Erlend – e loro, dritti e statuari, con voce soffice, quasi a voler raccontare un segreto al pubblico, intonano Una ragazza in due – celebre pezzo nostrano de I Giganti. «Mai le dirò, che muoio per lei. La tratterò male, e mi amerà».
Immediatamente l’atmosfera si anima di cameratismo e forse un pizzico di nazionalismo, un signore a due sedute dalla mia canta con un trasporto normalmente riservato all’inno nazionale allo stadio. «Volevamo fare qualcosa di diverso, per questa seconda data a Bologna» mi spiega Eirik più tardi nell’androne del teatro. Le porte sono serrate, siamo rimasti io, lui, una coppia che si protende per autografo e selfie di rito, le maschere in paziente attesa e la crew ha finito di impacchettare il poco merchandise rimasto.
Prendo il siparietto italico come un regalo, forse un token di apprezzamento per il Bel Paese con cui hanno una liason dalle radici profonde, tra la residenza stabile di Erlend a Siracusa – parla italiano senza timidezza di sorta – e la quota nazionale dei crediti incisi nell’album, di cui non si può far a meno di nominare il produttore e musicista reggiano Davide Bertolini, collaboratore di lunga data, ironicamente introdotto da Erlend come il «bass guy che potrebbe aver bisogno di un passaggio a fine concerto».
A 20 anni dal debutto Quiet Is The New Loud, giunge il quarto studio album Peace or Love uscito per Polydor Records il 18 giugno 2021, atteso da oltre una decade, precisamente dal release del 2009 di Declaration Of Dependence. Le 11 tracce sembrano il prodotto della paziente partita di scacchi che ritroviamo in copertina, il cui risultato è un sentimento crudo servito allo spettatore, che fa dei loro testi una poetica affine a Simon & Garfunkel, Dylan, Crosby, Stills, Nash & Young.
Lo show inizia con Comb My Hair, seguono i nuovi brani tra cui Angel e Catholic Country. Sul palco i due cantautori si avvicinano in un incontro simbiotico, una fusione di ying e yang fatta di sguardi reciproci sugli accordi, i movimenti attenti dediti al raggiungimento dell’armonia che li caratterizza.
Pare di assistere a una jam session dalla squisita natura d’improvvisazione jazz, se non fosse che la fluidità di arrangiamenti e ritmiche svelano una composizione precisa, ponderata e rivista fino al perfezionamento nei ben 5 anni di produzione del disco. Osservare l’alchimia tra Erlend e Eirik è simile a sbirciare da una finestra semi-aperta un momento di intimità altrui, ha un piacere ai limiti del voyeurismo.
Lo show continua toccando un buon numero di nuovi brani tra cui i due singoli di anteprima Rocky Trail e Fever ma anche classici prediletti dalla loro discografia come Mrs Cold.
Al momento di Love is a Lonely Thing sprofondo nella mia seduta di velluto rosso, dimentico gli sconosciuti troppo vicini – abbiamo perso l’abitudine – la sala diventa una verde distesa di campo, dove le melodie di Erlend ed Eirik diventano colonna sonora.
Armonie e modulazioni di timbro fanno dei Kings Of Convenience un peculiare esempio di cifra stilistica che riflette alla perfezione l’ossimoro tra sonorità e lirica. I testi sono diretti spezzoni di dialoghi unilaterali di una conversazione che non ci è dato conoscere.
Anche in questo ultimo album il duo norvegese ha molto da dire sull’amore e sulla vita, e allo stesso tempo nulla di nuovo, è un’oscillazione tra l’attesa paziente del futuro e un senso di rassegnazione verso il passato. È uno di quei lavori che va ascoltato su vinile, con una candela accesa sdraiati sul tappeto – parafrasando l’esperienza mistica anni 60 di un pre-adolescente Cameron Crowe.
I gloriosi sixties sono influenze tutt’ora marcate nei prodotti del duo norvegese, le melodie attingono dal folk nord-americano che ha sdoganato il fingerpicking nella vecchia Europa – non c’è un plettro in vista per buona metà della scaletta. D’altronde, a cosa servirebbe? I Kings of Convenience fanno parte della schiera di cantautori dal suono nudo, puro. Nel country si parla di “3 accordi e la verità” e per servirla a un vasto pubblico pagante necessita di sicurezza e onestà.
Quando sento definire i KOC “soft pop” mi si alza un sopracciglio. Lo trovo riduttivo, al limite di mangiare una crema inglese e perdersi lo strato alcolico di alchermes. “Bellissima semplicità”, ma “semplice” è un aggettivo da maldestro ascolto quando si parla di una band come i Kings of Convenience. “Semplice” nasconde in bella vista influenze stratificate di generi e tecniche, dalla bossa nova al jazz, il funk, l’afrobeat, il pizzicare delle corde, lo slapping delicato a scandire le ritmiche dei bassi e sostituire le percussioni, così squisitamente tipico del folk acustico le cui radici affondano nella cultura dell’America Black.
D’altronde i Kings Of Convenience vengono annoverati tra i massimi esponenti del New Acoustic Movement, etichettatura mediatica (grazie ad NME e James Oldham) di un trend sonoro votato alla presenza prevalente di chitarre acustiche e stripped back performance. Tra le sue fila si citano gli inglesi Turin Brakes, David Gray, Sailorstar e Coldplay, eppure il duo avrebbe più da raccontarsi con Nick Drake, Jackson C. Frank, e Sufjan Stevens, disparsa la nuvola di malinconia e tenebra appartenente a questi ultimi.
Gli arrangiamenti di Erlend e Eirik hanno infatti la capacità di trasportarti con leggerezza, alleviare la pesantezza dell’anima, dei tiri mancini della vita o l’incertezza del domani.
La musica dei KOC è una brezza che trascina via la lacrima sulla guancia, scesa senza permesso o preavviso, e a mia sorpresa questa frizzante esuberanza si manifesta live.
Tengono il palco tra aneddoti – Eirik ci informa che avrebbero voluto fare un tour in tutte le città del mondo che iniziano con la B, da Bergen a Bologna. Seguono botta e risposta con gli spettatori e mimiche danzanti di Erlend che si improvvisa narratore gestuale à la Charlie Chaplin in technicolor.
«Ringraziamo Luigi e Rodrigo per aver portato in macchina dalla Sicilia il contrabbasso» dice Erlend, con una frecciatina al rebranding economico di Alitalia, la quale non permette più il passaggio in aereo di strumenti ingombranti. L’oggetto in questione è la corda da camera tra le braccia di Bertolini, l’italiano trapiantato in Norvegia a cui si deve uno dei più popolari successi targati KOC, spiega Eirik raccontando la nascita della demo che divenne Misread – “forse la conoscete” – enfatizza ai primi giri soffusi di note.
«No, non si battono le mani, si schioccano le dita».
Rigorosamente a tempo scandito da Erlend, così redarguisce un pubblico entusiasta, a tratti fremente, che coglie al balzo l’invito ad alzarsi dalle comode sedute e ballare pudicamente nel rispetto delle regole per la chiusura con un altro classico I’d Rather Dance With You da Riot On An Empty Street.
Di tutti i sorrisi, i commenti su “quanto sono belli” che giungono dalle file dietro, mi restano i loro sguardi attenti e alterni tra la platea e la balconata. Cercano i nostri volti semi coperti dalle mascherine, allargano le braccia quasi volessero coglierci tutti in un caldo abbraccio di ringraziamento per essere lì. E così capisco, non è solo il pubblico ad avere fame di musica dal vivo.
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