«Un’esperienza sensoriale collettiva sonora ispirata all’osservazione del fuoco, che è insieme forza naturale e storia dell’umanità. Il fuoco è la stessa Lucy, la prima donna, manifestazione dell’incendio del risveglio della coscienza».
La performance si chiama LUCY, finalista alla Biennale College Teatro con la direzione di Stefano Ricci e Gianni Forte, e sarà presentato al pubblico il 4 e 5 maggio a Teatri di Vita. È l’ultimo progetto di (S)Blocco5, un centro di ricerca, formazione e produzione teatrale, che è entrato in residenza per 10 giorni all’interno di Teatri di Vita, e che è stato ideato dalla poliedrica attrice/performer e regista Ivonne Capece.
(S)blocco 5 è una realtà poliedrica e duttile, una fucina di progetti di teatro contemporaneo e corsi di alta formazione sperimentale per attori/autori per ogni livello, che non si è arresa neppure durante il periodo di lockdown e la lontananza forzata dalle scene; hanno anzi saputo sperimentare nuove forme di scenografia, portando il teatro “fuori” dai soliti schemi, facendo largo uso della tecnologia e della virtualità come nuovi potenti strumenti di espressione.
Tra i loro ultimi progetti c’è Frankestein: un’intensa immersione tecnologica tra cuffie wireless, ambientazioni virtuali, attori reali e avatar olografici, con drammaturgia a componente interattiva, ma anche un viaggio onirico nel romanzo e insieme nell’emotività della sua autrice.
Quello di (S)blocco5 è uno studio di genere, un Frankestein che racconta un’epoca in cui essere donne e artiste poteva essere un serio problema, in cui ci si poteva sentire mostruose se si partorivano libri invece che figli «Un parto della mente, anziché del corpo. Siamo partite da qui – spiega Ivonne – Mary Shelley, dopo aver scritto questo romanzo si è ritirata dal ruolo di scrittrice per aver subito innumerevoli critiche. Per essere accettata, fece di tutto per sminuire quella prima opera; per lei il “mostro” nella realtà è stato il suo racconto».
Ma non solo, è anche un’immersione tecnologica «che indaga il rapporto tra l’attore e un suo avatar sonoro, la “testa bineurale”, una sorta di microfono a forma di testa umana capace di intercettare e registrare i suoni di ciò che ascolta distruggendo la distanza fra lo spettatore e l’attore. L’ascoltatore riceve così l’impressione di un incrementato senso di “profondità” del campo sonoro. Si creano veri e propri cortocircuiti sonori».
Frenkestein infatti è incentrato sul rapporto fra virtualità e realtà ed è stato prodotto da Elsinor centro di produzione teatrale e nato all’interno del progetto europeo Play-on! New storytelling with immersive technologies, un progetto di cooperazione su larga scala avviato da teatri con esperienza nell’uso delle tecnologie digitali nell’ambito del finanziamento europeo della cultura Stream Creative Europe.
Quello della “virtualità” è stato un aspetto sperimentato durante il Covid, che ha fatto evolvere lo spazio teatrale, il luogo in cui gli spettatori si trovano per assistere (es. performance a distanza), scoprendo che «una platea può essere un luogo che si estende ovunque, il palcoscenico e gli attori possono essere trasportati anche molto distanti fra loro. – Spiega Ivonne – Abbiamo interpretato l’obbligo come un’opportunità di indagine, a utilizzare degli spazi che non avremmo forse sperimentato mai tra cui anche il rapporto dell’uomo con la natura che lo circonda».
Ivonne cita Inside | Me. Dialoghi fallimentari con la natura, una performance e un’immersione sonora che indaga il tentativo di ritrovare una connessione tra interno dell’individuo e interno del mondo, dopo l’esperienza del lockdown, e Thinking Blind (Pensare da ciechi). «Crediamo che esista un dentro e un fuori – continua Ivonne – cose distinte da noi, e non ci accorgiamo di vivere immersi in un’atmosfera fisica, ambientale, culturale».
Performance innovative perché concepite in spazi aperti, un nuovo approccio attoriale e di regia: «Siamo andate in un bosco, scoprendo che il teatro è la vera prigione, la scatola in cui noi attori di teatro tradizionalmente siamo nati che è un luogo orribile, una vera prigione».
Su questo aspetto il mondo teatrale si è spezzato a metà durante i vari lockdown: «alcuni artisti, più legati al contatto fisico, hanno percepito questo momento come un “raffreddamento”, per altri – come noi – è stata più una sfida, il dilatare la propria visione del teatro, perché in fondo è un errore delimitare i confini di una disciplina, sono in realtà sovrastrutture che ci siamo dati per convenzione; non è detto che gli spettatori debbano essere tutti in un medesimo luogo».
Creata nel 2013 come associazione culturale, a (S)Blocco5 nel 2016 si è unita la scenografa e costumista Micol Vighi. «Micol ha creato degli abiti di scena per noi, poi la collaborazione è andata oltre, e ora lei è la nostra base creativa mentre io mi occupo soprattutto della parte legata alla regia. – spiega Ivonne – Il suo apporto è essenziale e creativo».
Ivonne è laureata in filologia medioevale: «sono molto legata alla letteratura antica, e appassionata di saggistica. I miei lavori nascono infatti da una ricerca drammaturgica aspra e lirica, spesso elaborata a partire da materiali saggistici, che precipita in lavori sul “cromatismo umano”, sulla nostra complessità di esseri umani. Gli ultimi lavori partono spesso da basi storiche, con testi asettici, complessi, obiettivamente difficili da portare in scena perchè non nati per il teatro, ma che interpretiamo accostando le performance a immagini mute, o facendo raccontare al corpo quel che il testo vuole comunicare».
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