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Teotriste e l’arte del “maldivivere”: “Mi piace mostrare alla gente, quello che la gente è”

05-05-2025

Di Michele Zacchini

“Mi piace mostrare alla gente quello che la gente è”.

Rappresenta il mondo underground, quello LGBTQ+, l’uso di sostanze, la salute mentale, la libertà sessuale. Ma sopra le sue illustrazioni si appoggia un velo, quello del disagio, o – come piace definirlo a lui – del “maldivivere” che attanaglia in forme e intensità differenti ognuno di noi. Senza giudizi, senza condanne, trascinandoci in un mondo crudo, reale e non romanzato che, in fondo, è un inno alla vita.

È possibile esorcizzare le proprie e le altrui insicurezze attraverso immagini provocatorie e dal tono agrodolce?  Possono leggerezza e dramma convivere nella stessa cornice e collaborare a rendere un’immagine evocativa e carica di messaggi etico-sociali? L’abbiamo chiesto al fumettista e illustratore Teotriste, classe ’00, vicentino, che da anni orbita tra Bologna e dintorni.

Chi è Giovanni? Quando e come nasce Teotriste?

Sono da sempre appassionato al mondo dell’arte visiva e iconica, anche se inizialmente mi trovo più orientato verso la grafica, tanto che, una volta diplomato, opto anche di trasferirmi a Torino e frequentare il CSC di Animazione. Dopo qualche lavoretto sporadico, mentre continuo a maturare un mio percorso artistico ancora lontano dal fumetto, la pandemia mi costringe a reinventarmi nel mio chiuso spazio casalingo. È in questo periodo che mi appassiono veramente al mondo fumettistico, una forma comunicativa che sembrava concedermi più spazio e libertà artistica. Dopo il Covid mi trasferisco a Bologna per frequentare l’Accademia del Fumetto e Illustrazione con non poche difficoltà, ma nel 2024 riesco a laurearmi mentre inizio a far conoscere le mie strisce e le mie illustrazioni. Attualmente sono iscritto alla magistrale di Linguaggi del Fumetto e intanto proseguo i miei lavori solisti, che mi hanno portato a trattare tematiche tra le più disparate e a conoscere un mondo che ammiravo solo dall’esterno.

Glory Hole

Come sfrutti la forza comunicativa del mezzo iconotestuale? Le tue opere seguono un filo rosso comune nella struttura o vai più a sentimento di volta in volta?

Mi definisco fumettista, ma di fatto pubblico principalmente illustrazioni. Il fumetto è più immediato e più semplice, permette di arrivare dritti al punto e mostrare un messaggio ben chiaro ed evocativo. L’arte sequenziale è in grado di raccontare una storia e spesso si avvale anche della componente testuale, il che mi dà l’opportunità di spaziare tra tematiche e dimensioni piuttosto eterogenee. Resto comunque fedele alla forza dell’immagine, che sfrutto molto più della semiotica tradizionale. Difatti le mie strisce tendono a narrare attraverso la rappresentazione visiva, a mostrare un mondo senza spiegarlo a parole; quest’ultime vengono spesso e volentieri relegate in fondo al fumetto sotto forma di aforismi o frasi a effetto, che conciliano e fanno un sunto del messaggio trasmesso dalle immagini.

Che messaggi ricorrono nelle tue strisce e illustrazioni? Quali soggetti prediligi e che filosofia desideri comunicare?

Libertà sessuale, rapporti poliamorosi, consumo di droghe, disturbi mentali e di alimentazione, autolesionismo e suicidio, prostituzione, sono tutte componenti del contesto da cui provengono i miei soggetti e le mie illustrazioni. Il velo che ineluttabilmente si stende sopra ogni cosa è quello del disagio, o – come piace definirlo a me – del “maldivivere” che attanaglia in forme e intensità differenti ognuno di noi. Le mie storie non finiscono con il classico “e vissero per sempre felici e contenti” perché la realtà nuda e cruda che mostro non è una favola, non è una battuta di spirito, ma riflette coscientemente i drammi più o meno esistenziali che affliggono l’essere umano da sempre. “Mi piace mostrare alla gente quello che la gente è” e a questo mi limito, senza condannare apertamente niente e nessuno, confidando che la buona coscienza del pubblico sappia intendere dove le mie immagini vogliono andare a parare. Recentemente mi sono focalizzato su illustrazioni e tematiche provenienti dal mondo omosessuale ed omoerotico, per provare a sopperire al problema della rappresentazione che tende a dipingere la comunità LGBTQ+ in una maniera romanzata e falsa. La battaglia non è contro le dinamiche odierne, ma punta a sovvertire il sistema e la cultura che a questa dinamiche hanno portato, nel tentativo di estirpare la radice del problema.

Come racconteresti il tuo stile? In un contesto come quello del fumetto, pensi che la forma incida notevolmente sul risultato e l’espressività finale?

Prediligo la “ligne claire”, dal tratto chiaro e semplice, poco uniforme e poco raffinato. Gioco molto con i contrasti e mi piace anche l’idea di sperimentare con la matita senza passare dal digitale, ma in generale mi avvalgo dello stile leggero ed elementare, a prescindere dalla tecnica. Penso che ogni artista debba essere libero di maturare un proprio stile e una propria forma, e rispettato per la sua scelta; io personalmente ritengo che un’immagine chiara e d’impatto come la mostro io, che non riempia l’occhio di insani virtuosismi o pretenziose pomposità, sia l’ideale per consentire lo spazio adeguato a maturare emozioni e riflessioni senza che significante e significato vadano sconnessamente a intrecciarsi.

Ci sono nomi tra i tuoi colleghi e colleghe, e nel mondo dell’arte in generale, che osservi con ammirazione e adoperi come fonte d’ispirazione per i tuoi lavori?

Sicuramente la mia arte e la maniera in cui racconto i miei pensieri prendono tanto dalla poetica dei grandi fumettisti del “maldivivere” italiani, primi fra tutti Gipi e Zuzu, fumettista salernitana attiva nella Capitale. L’illustratrice americana Liz Suburbia è un buon riferimento se invece parliamo di stile, in quanto anche lei abile fan della linea chiara e del soggetto semplice, informe. Sono affascinato anche dalla storia e dalla missione del fotografo cinese Ren Hang, il quale ha raffigurato la sessualità e le dinamiche ad essa legate all’interno della propria società, prima di prendere la decisione di suicidarsi e lasciare un mondo troppo chiuso per i suoi orizzonti, un mondo in cui il fotografo, così come i personaggi delle mie strisce, non trovava un posto adatto a sé. Per chiudere, in ambito musicale amo la discografia e soprattutto la sfrontata sovversione che rappresentano artisti quali Miss Keta e Troye Silvan, bandiere della libera emancipazione e vicini in particolare alla mia stessa causa legata alla comunità LGBTQ+.

Quanta importanza attribuisci alla città di Bologna in quanto panorama culturale e culla della tua formazione e produzione artistica?

Bologna è per antonomasia la città trasgressiva della rivoluzione non solo sociale, ma anche interiore. È una città dove non esistono paletti, dove puoi essere chi sei, dove puoi andare in giro con un salvagente e nessuno ti dice niente. Rimane il fatto che alcuni settori qui abbiano alcuni limiti che nascono dalla poca sensibilizzazione e dalla inerzia che sussiste nei confronti di certi sistemi e certe necessità. Con la mia arte voglio anche solo parlare del mio mondo per far venire la gente a conoscenza di problematiche e dinamiche che non possono più passare inosservate.

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