Aria da gigante buono e una chioma composta di riccioli neri: così si presenta all’appuntamento fissato per l’intervista Bislak, l’unico artista il cui nome e cognome – Marco Ronda – suonano benissimo, ma che preferisce farsi chiamare con lo pseudonimo che si porta dietro dalle scuole superiori e che – dice – lo descrive perfettamente: pittoresco, bizzarro. Non a caso, se l’è autoaffibbiato.
Guarda il mondo dall’interno. Spesso infatti le sue opere hanno come protagonisti omini stilizzati che rappresentano in qualche modo il nostro “io” interiore e il suo rapporto con il mondo. E li colloca in spazi astratti dove si materializzano paure, attese e situazioni.
Bislak proviene da Palermiti, piccolo centro di un pugno di anime in provincia di Catanzaro. Vive a Bologna da cinque anni, migrato dalla punta dello stivale verso una città che – mi racconta – rappresenta un punto strategico per chi ha bisogno di spostarsi facilmente in ogni direzione.
Come hai maturato la decisione di trasferirti?
«Dopo la laurea all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, ho trascorso un periodo a Londra in Erasmus Plus: lavoravo in azienda, facevo grafica d’arte. Sono rientrato in Italia perché volevo fare qualcosa nel mio Paese. Ho trovato lavoro in provincia di Modena come insegnante di sostegno e mi sono stabilito a Bologna. Facendo un part time, avevo abbastanza tempo da dedicare all’arte. Nei mesi estivi, quando la scuola è chiusa, potevo concentrare i lavori di arte urbana».
Sei riuscito a portare l’arte a scuola?
«Io porto sia l’arte a scuola che la scuola nell’arte. Con i ragazzi faccio attività creative legate non solo all’arte visiva, ma anche alla musica, sviluppate con un collega musicista. Non avrei mai pensato di lavorare con loro, ma i bambini ti insegnano a guardare le cose con occhi diversi. Per loro un tavolo non è semplicemente un tavolo, vanno oltre. Sono loro a spingermi verso l’astrazione».
Ho notato che raffiguri individui stilizzati, senza i dettagli del volto…
«Mi piace l’idea che lo spettatore attribuisca un’espressione alle mie sagome, che ci sia spazio per la sua immaginazione».
Che tipo di lavori realizzi?
«Faccio lavori su tela, grafiche d’arte, animazioni lavorate fotogramma per fotogramma, ho lavorato anche su muri e pavimentazioni. A Milano ho realizzato interi campi da basket. Uno in particolare, che si trova presso una residenza per studenti, l’ho fatto in due giorni: alla fine il mio contapassi segnava quaranta chilometri, avevo consumato i calzini!».
Qual è il punto di partenza per un’opera di dimensioni così grandi?
«In questo caso avevo sviluppato il progetto in CAD. In genere, comunque, non riesco da zero a fare un lavoro in digitale: parto quasi sempre da un disegno fatto a mano, lo trasferisco in digitale e infine su tela, muro o pavimentazione».
Come ti definisci?
«La definizione che preferisco è “artista urbano”: mi piace perché è italiano e suona meno “abusivo”. Lavorare per strada significa fare ricerca antropologica: stai a contatto con la gente, ci parli, provi a capire cosa pensano le persone per trarre ispirazione per nuovi lavori».
A Palermiti sei direttore artistico di Sparti: di cosa si tratta?
«È un festival di street art su serranda, che la scorsa estate è giunto alla terza edizione. Il comune fornisce un budget, che serve per i materiali e la retribuzione degli artisti. A tutti offro vitto e alloggio a casa mia. Sto cercando di creare un percorso: invito artisti locali e ogni tanto ne inserisco uno straniero. Siamo arrivati a sedici serrande in tre anni. Così il centro storico di Palermiti, generalmente piuttosto desolato, le sere d’estate si popola di persone che fanno quattro passi e vanno a visitarlo».
Quali sono i lavori di cui vai più orgoglioso?
«In realtà sono molto critico verso me stesso. Vorrei essere più libero nelle mie opere, ma sono un precisino e tendo a vedere i difetti. Per questo motivo cancello da Instagram i lavori che non mi piacciono più e che non rispecchiano la mia evoluzione stilistica. Tra le opere che non hanno mai smesso di piacermi, quella realizzata per una mostra dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, ispirata a Caffè Guglielmo, che illustra le fasi di lavorazione del caffè; mi piace Madre e figlio, che descrive la relazione tra i due individui da quando il figlio si trova nel grembo materno a quando i ruoli si invertono ed è il figlio adulto a prendersi cura della madre; mi piace Ufotrioska, il video di un ufo che illumina un omino, che illumina un altro omino, e così via, all’infinito: un mondo apparentemente minuscolo ne può contenere molti altri. Una cosa divertente che ho fatto è il remake di quadri e foto celebri, come il bacio a Times Square».
Oltre che nei centri della tua regione d’origine, hai lavorato in città come Milano, Modena, Grosseto, Salerno. A Bologna cosa hai fatto?
«A Bologna, per il progetto Disegnare Dialoghi dell’associazione Serendippo, ho realizzato un’opera su una cabina Enel in Bolognina. L’ho fatto durante il covid: ero all’aperto, quando tutti erano chiusi in casa. È stato divertente: avevo disegnato tutti questi triangoli e, per ricordarmi di quale colore riempirli, avevo scritto il nome di un colore all’interno di ciascuno.
A un certo punto è passata una signora: era molto emozionata, perché in una delle forme aveva letto “blu” e pensava fossi Blu, l’artista italiano di fama mondiale. Mi è toccato spegnere il suo entusiasmo, rivelandole la mia identità».
Desideri per il futuro?
«Da una parte, dedicare più tempo all’arte. Dall’altra, invece, sento l’esigenza di rallentare, di non dover per forza stare alla velocità dei nostri giorni. A volte vorrei trovare il tempo di fissare il vuoto e restarmene a pensare. Vorrei trovare il tempo di annoiarmi».
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