Il 21 marzo scorso Barbara Cassioli ha chiuso la porta di casa con in spalla uno zaino e in mano un cartello con una scritta: “Lampedusa”. Senza guardarsi indietro e sopratutto senza soldi. Da lì comincia la sua avventura in autostop da Bologna a Lampedusa attraverso l’Italia, lontano dalla sua confort zone. Un viaggio per ritrovarsi, per lasciare andare la zavorra delle paure, per lanciare un messaggio importante.
A distanza di un anno sta per uscire il documentario che lo racconterà attraverso le immagini ma Barbara ha già deciso che è tempo di intraprendere una seconda avventura che presenterà, insieme alla sua compagna di viaggio, Valentina Costi, sabato 22 febbraio da Armonie voci di donne, in via Emilia Levante 138 alle 18. L’incontro sarà accompagnato da un aperitivo di autofinanziamento.
Quella di Lampedusa è stata una provocazione, una sfida ma anche un atto di solidarietà. Il denaro che avrebbe speso per intraprenderlo lo ha donato a Mediterranea, la Ong che si occupa di salvare le persone in mare.
Tre mesi on the road che ci ha raccontato davanti a un caffè.
Cosa ti ha spinto a intraprendere un viaggio senza soldi in autostop?
“Di solito per fare chiarezza divido le mie motivazioni in tre aree: socio-politiche, personali e intime. Al momento giusto si sono intersecate insieme e l’idea di partire mi ha bussato alla porta. Per anni ho ignorato questo progetto che covavo dentro e che per paura lo chiudevo dentro a un cassetto. Nel 2017 ci sono stati gli accordi Minniti e per la prima volta mi sono davvero interrogata se mai fosse possibile che nel paese in cui sono nata si facessero accordi con le milizie libiche. Possibile che le persone del mio paese fossero d’accordo? E da lì il progetto ha preso forza.
Le ragioni personali hanno a che fare con il lavoro. Ho lavorato dieci anni come operatrice sociale facendo sempre molta fatica a trovare contesti in cui l’utenza fosse considerata per quello che è cioè esseri umani portatori di talenti oltre le difficoltà. L’ultimo contratto si era chiuso e mi è andato bene così. Perché sentivo che non erano più rispecchiati i miei valori. Ero disoccupata ma libera.
Le ragioni intime arrivano dopo alcune disgrazie accadute a persone vicino a me, docce freddissime. Mi hanno spinto a chiedermi ‘sto facendo davvero quello che posso per essere felice?’ ‘Te lo ricordi qual è il tuo sogno?’ A quel punto ho preso una decisione, quella di partire”.
Perché Lampedusa?
“Lampedusa è un simbolo. Più vicina all’Africa che all’Europa è terra di confine. E i confini sono legiferati in maniera tale che certe persone li possono superare agevolmente e altre no. Pur essendo più vicina alla Tunisia che all’Italia, è impossibile per un tunisino medio arrivare. E invece è facilmente raggiungibile per me, che ci sono stata in aereo una prima volta e questa addirittura ci sono arrivata senza soldi. La mia è voluta essere una provocazione”.
Quale significato ha avuto per te partire senza soldi?
“La necessità di partite senza soldi è nata dal desiderio di provare cosa significa davvero non avere soldi. Affrontare una mia paura. Scoprire se abbiamo solo il denaro come merce di scambio tra esseri umani o c’è dell’altro. Cosa posso fare se non posso pagare. Voglio vivere dei miei talenti ma non è facile crederci sul serio, volevo mettermi alla prova.
Questo è stato un salto nel buio. E ho fatto piazza pulita di tutto: casa, lavoro, fidanzato. Ho voluto rinunciare a tutto, c’era bisogno di spazio. In senso più ampio una delle domande a cui il progetto vuole dare risposta è se abbiamo bisogno di avere paura di quello che non conosciamo fuori e dentro di noi. Per me lo sconosciuto è stato il cambiamento. Come società attualmente abbiamo paura del migrante mussulmano maschio”.
E Mediterranea?
“Mediterranea era il tassello mancante. Tutto quello che non spendo ho deciso di donarlo a Mediterranea. Ho unito un impegno sociale al viaggio in solitaria, che è quello che mi riconnette con me stessa. Mi rende felice e mi fa crescere. Lontano dalla mia zona di confort fino all’ultimo punto d’Europa, dove chi viene dal mare e ce la fa si rende conto di essere vivo, di poter ricominciare una vita”.
Raccontami il tuo primo giorno di viaggio.
“Ho salutato i vicini, ho chiuso la casa di Livergnano dove non sarei più tornata. Avevo paura perché non sapevo quello che sarebbe successo, paura che deriva dalla mania di controllare quello che capita. Ma la verità è che non lo sappiamo quello che ci succederà anche se abbiamo l’illusione di poterlo pianificare.
Ho fatto l’autostop. La prima persona che mi ha dato un passaggio era una signora francese, anziana, su una panda con un cane. Il primo giorno non ho mai aspettato più di cinque minuti. La prima notte l’ho passata in un eco villaggio in toscana. L’avevo fatto davvero. Ero stonata dall’emozione”.
La realtà che ti ha più colpito?
“Tanti incontri magici e importanti e tutti mi hanno insegnato qualcosa. Ma più di tutti è stata la cooperativa ‘Al di là dei sogni‘ in provincia di Caserta. Operano su un territorio confiscato alla mafia, tramite agricoltura sociale e turismo responsabile con soci lavoratori che vengono dal mondo della psichiatria, delle dipendenze, del carcere. Ho pianto quando sono andata via. Avevo finalmente trovato quello che cercavo nel mondo dell’educazione. Persone messe al centro del progetto, persone che sono davvero viste.
Il presidente Simmaco Perillo è una persona che ha messo la sua vita in pericolo in nome di un valore più alto, andando a prendere persone difficili e dando loro, attraverso il lavoro, una reale possibilità di riabilitazione. Sono persone come lui che dimostrano che il cambiamento è possibile se c’è una comunità. E lo ha fatto partendo dagli scarti degli scarti della società. Mediterranea senza una comunità alle spalle non uscirebbe in mare e anche solo il mio viaggio non sarebbe stato possibile”.
C’è una tipologia di persone che si può definire “amica degli autostoppisti”?
“Spesso uomini. Persone che hanno a loro volta fatto l’autostop da giovani. Si crea complicità. Poi ci sono le persone sole, sopratutto anziane, che vogliono qualcuno con cui parlare ed è molto triste.
Pochissime donne ma in situazioni cruciali arrivano loro. Poche ma decisive. Ricordo la prima donna che mi ha caricato, quella che mi ha pagato il biglietto del treno, quella che mi ha portato all’imbarco”.
Hai rifiutato dei passaggi?
“Sì. Ho sentito che non era il caso. Un anziano che puzzava di alcol e due ragazzi giovani con segni sulle mani di chi fa uso di eroina. Non ho sentito sobrietà e non me la sono sentita. Ho seguito alcune semplici regole che mi hanno insegnato le ragazze di strada con cui ho lavorato anni fa. Da chi accettare passaggi e da chi no. Meglio un uomo che due, meglio vecchio che giovane. Solo per prevenzione, per essere più tranquilla”.
Qualcosa che non ti aspettavi?
“Un signore a Grosseto che lavora in un circolo anziani dell’Arci che ha dato di matto quando ho chiesto se potevo lasciare un adesivo di Mediterranea. Urlava ‘Traditori della patria, negri di me**a! Potrebbero morire tutti a fondo’. Non ascoltava, urlava, non si poteva instaurare un dialogo. E non sapeva argomentare.
Qui capisco che la mia presenza ha senso, non con persone che la pensano come me. Se una persona arriva a essere così ignorante e piena di pregiudizi e di odio, la responsabilità è del Paese, delle istituzioni. Sopratutto quelle che hanno creato questa ignoranza e poi la usano per influenzare il cervello delle persone che non hanno gli strumenti per vedere se c’è qualcosa di diverso. Dicono ‘ecco sfogati sugli immigrati’”.
Hai trovato quello che cercavi?
“Avevo questo sogno da tre anni, avevo perso l’ispirazione e non riuscivo più a creare, il viaggio era necessario. Cercavo ispirazione. Ho messo dentro tutto quello che per me è importate. Quindi direi di sì. Adesso ho la possibilità di fare quello che amo fare e mi sento libera. Arriva la cosa giusta al momento giusto perché sono pronta, ricettiva e aperta”.
A distanza di un anno dal tuo viaggio stai per intraprendere una seconda avventura, questa volta non da sola, di cosa si tratta?
“Il progetto si chiama ‘Libera come una donna’, è stato ideato da me e da Valentina Costi. Percorreremo la via Franchigena da Lucca a Roma dall’8 al 31 marzo. Partiamo con l’intento di smascherare tutte quelle forme di limitazione della libertà personale che le donne, al giorno d’oggi, in Italia, vivono.
La società ci vuole madri, mogli, esteticamente perfette. Gli stipendi femminili sono generalmente inferiori a quelli dei colleghi maschi, per non parlare delle molestie, che vengono liquidate con ‘se l’è andata a cercare’. Vogliamo intraprendere un cammino culturale evolutivo di tutta la società che porti la pace tra le persone e il rispetto per la vita umana.
Lungo il percorso che conta 350 chilometri raccoglieremo storie di vita delle donne che incontreremo, con l’obiettivo di realizzare in un futuro una mostra itinerante”.
Il vostro abbigliamento sarà particolare, porterete con voi un abito da sposa, perché?
“Abbiamo deciso di indossare un abito da sposa per ricordare l’esperienza dell’artista e compagna Pippa Bacca che nel 2008, durante l’iniziativa ‘Brides on Tour. Spose in viaggio’ venne brutalmente uccisa in Turchia”.
Hai deciso di rendere pubblica la tua esperienza trasformandola in un documentario. Perché, visto che era nata come un’avventura personale?
“Fin dall’inizio ho tenuto un diario di viaggio online con il mio blog ma non avevo intenzione di testimoniare il viaggio con una telecamera. Il viaggio era per me. Con il tempo però mi sono resa conto che questo viaggio è portatore di valori sociali e valori educativi. Semplicemente dimostrare che una donna sola può viaggiare da sola. Rompere il tabù sul viaggiare senza soldi. Rompere il tabù che si può vivere dei propri talenti.
Il documentario è finalmente pronto. Ora ci occuperemo della distribuzione. È nato dalla collaborazione con Costanza Castiglioni, giornalista e video maker che ha creduto insieme a me nella possibilità di ripercorrere il mio cammino con lo scopo di raccontare che oltre al clima di odio e di isolamento sociale c’è anche un sacco di bellezza”.
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