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Claver Gold: “Bologna è meno hardcore rispetto a quando l’ho lasciata”

10-10-2025

Di Silvia Santachiara

Era il 2015 quando Claver Gold – al secolo Daycol Orsini – pubblicava, insieme ai Kintsugi, Melograno: un album che portava nel rap italiano una scrittura intima e simbolica, capace di trasformare la ferita in linguaggio, la scrittura in terapia e specchio, un simbolo di vita in un contenitore anche di dolore, solitudine, conflitto ta desiderio e distanza, da cui fa nascere qualcosa di fecondo.

Quel disco è nato proprio a Bologna, dove Claver ha vissuto dal 2007 al 2013, studiando all’Accademia e suonando nei centri sociali della città. Dieci anni dopo, torniamo dove tutto è cominciato.

Fotografa

Siamo al Baumhaus per il listening party dedicato alla ristampa in vinile di Melograno.

Dopo dieci danni dalla sua uscita, Django Music insieme a Glory Hole Records, ristampa il disco in vinile, in un’edizione limitata, numerata, rimasterizzata (da Kique Velasquez), con doppio disco colorato. Ad accompagnare la stampa dell’album, un merchandising ufficiale dedicato: cappellino – in vendita solo insieme all’acquisto del vinile, realizzato interamente a mano da Shape Creativewear – e t-shirt. Un appuntamento che anticipa il live del 28 novembre al Link.

L’abbiamo incontrato per ripercorrere la nascita di quel disco e capire come la sua musica continui a portare nuovi semi, quanto Bologna lo ha influenzato, e cosa è rimasto fertile — nella musica e dentro di lui — dopo dieci anni di crescita e trasformazione.

Oggi siamo insieme in occasione della ristampa in vinile di Melograno, dieci anni dopo l’uscita dell’album. Come è nato e in che modo è stato influenzato dalla città?

Il disco è nato in modo del tutto casuale, perché all’epoca non conoscevo ancora i Kintsugi. Ci siamo incontrati per caso in un baretto di cui non ricordo nemmeno il nome, durante una serata in cui suonava Dj Lugi, che poi è diventato un po’ il simbolo della nostra unione. Abbiamo iniziato a frequentarci come amici, senza alcuna intenzione artistica. Poi un giorno dissi loro che avevo cominciato a fare qualche produzione: gliele feci ascoltare e mi dissero, senza mezzi termini, che facevano schifo. (ride) Mi proposero allora di lavorare insieme. Il primo brano che abbiamo realizzato è stato Melograno, e da lì abbiamo iniziato a pensare di fare un disco.
All’epoca vivevo ancora a Bologna, ed è lì che il progetto è nato ed è stato concepito. Poi l’ho concluso nelle Marche.

Perchè Melograno?

Era un periodo complicato per tutti noi, sia sul piano personale che nelle relazioni di coppia. Sentivo il bisogno di raccontare qualcosa di diverso rispetto a ciò che avevo fatto prima con Mr. Nessuno, che era un disco molto hip hop. Volevo prendere un’altra direzione e iniziare a raccontare non solo le mie storie, ma anche quelle degli altri.
Il melograno è un simbolo di fecondità femminile, ma anche di aridità: rappresentava bene quel momento, un’aridità anche intellettuale che avvertivo nel rap di allora, dove si parlava solo di rap e mai di questioni sociali, politiche o personali.
Molti mi dissero che ero matto, che non aveva senso cambiare rotta dopo il successo di Mr. Nessuno. Ma per me era un ramo nuovo che volevo esplorare nella mia carriera. E alla fine quel ramo è diventato il tronco principale del mio albero artistico. Dieci anni dopo, essere ancora qui a parlarne significa che qualcosa è rimasto nelle persone.

Il Melograno è un simbolo della fecondità, della rinascita, del legame con il femminile. Dieci anni fa Melograno sembrava cercare luce nel buio, trasformare il dolore in qualcosa di fertile. Oggi cosa è “fecondo” per te — nella musica, nella vita ma anche nel modo di guardare il mondo?

Credo che la vera fecondità nasca dalle relazioni, dai rapporti umani. Da un incontro possono nascere anni di amicizia, scambi di idee, collaborazioni che ti fanno crescere e ti portano a sviluppare pensieri nuovi sulla vita.
Io sono ancora circondato dalle stesse persone di dieci anni fa: nella coppia, nel management, nella musica. Non è immobilità, è come coltivare un grande orto — curarlo, nutrirlo, e poi raccoglierne lentamente i frutti.
Questo è un po’ anche il mio percorso musicale: seminare con pazienza, senza fretta, e dare valore ai legami. Credo che scegliere bene le persone con cui condividere il cammino sia la cosa più importante.

Dentro Melograno ci sono relazioni complesse, solitudine, autoanalisi, la contraddizione tra desiderio e sofferenza, come se ogni gesto d’amore avesse un prezzo. C’è qualcosa che pensi di non poterti perdonare nel modo in cui affrontavi la vita e le relazioni allora? E c’è invece qualcosa che oggi senti di aver imparato a perdonare — a te stesso o agli altri?

Fortunatamente oggi riesco a perdonarmi e a non giudicare né me stesso né gli altri. Anche quando do un consiglio, non c’è mai giudizio, ma solo la mia opinione, un punto di vista. Lo stesso atteggiamento cerco di averlo con me: vivere il più possibile il presente, senza restare ancorato al passato né proiettarmi troppo nel futuro.
È un percorso che ho iniziato diversi anni fa, perché per molto tempo non riuscivo a perdonarmi due cose: il restare imprigionato nel passato — nelle difficoltà familiari e sociali che ho vissuto da bambino — e il lasciare che paure, ansie e pensieri mi proiettassero troppo avanti.
Oggi riesco a perdonare quel Claver Gold che non sapeva vivere nel presente, e mi considero fortunato a poterlo fare ora, in questo momento della mia vita.

Melograno nasceva da un dolore fertile, da una solitudine che diventava parola. Nei dischi successivi — Requiem, Infernvm — quel dolore sembra trasformarsi in qualcosa di più spirituale, quasi catartico. È un modo per proteggerti o per andare ancora più a fondo? Come è cambiato il tuo modo di dialogare con la sofferenza?

Negli anni ho sviluppato un modo di scrivere che assomiglia molto a un percorso di autoanalisi. Metto nero su bianco le mie fragilità con una sincerità tale che, a volte, le persone mi chiedono se non ho paura a espormi così tanto, a essere così schietto con me stesso.
Oggi nel rap è più comune parlare di sé, si è diffuso il cosiddetto conscious rap e i testi personali sono diventati più frequenti, ma quando ho iniziato non era affatto così. Per me, invece, è sempre stato naturale affrontare il mio dolore: non lo rifuggo, lo osservo, lo racconto. Credo che il dolore, in fondo, sia sempre lo stesso — cambia solo il modo in cui ci si abitua a conviverci.

Durante il mio percorso di analisi è emerso che, per anni, mi sono convinto di essere invincibile: un superuomo che non poteva ammalarsi, che non poteva fermarsi o arrivare tardi. Avevo costruito dentro di me una sorta di perfezione autoimposta, che mi ha aiutato molto nei periodi di solitudine, ma che col tempo è diventata una gabbia. A un certo punto quelle regole non servivano più, e imparare a lasciarle andare è stato difficile.
Adesso sto iniziando a farlo, piano piano. C’è una canzone bellissima di Niccolò Fabi che dice “vince chi molla”: e credo davvero che sia così. Lasciare andare la presa è l’unico modo per non restare schiacciati da quelle mani gigantesche che, per troppo tempo, mi hanno tenuto fermo.

Hai vissuto qui a Bologna dal 2007 al 2013. Quali erano i tuoi luoghi e come vedi cambiata oggi Bologna rispetto a 10 anni fa?

I miei luoghi, a Bologna, sono stati soprattutto quelli di via Mascarella: ci ho vissuto per tanto tempo e conservo ricordi meravigliosi di quel periodo. Ma anche zone come la Bolognina o Stalingrado occupano un posto importante nella mia memoria — sono i luoghi in cui ho stretto i primi legami che ancora oggi mi porto dietro.
Bologna oggi mi sembra diversa: più pulita, più leggera, meno pericolosa, meno hardcore rispetto a com’era quando l’ho lasciata. Mi sembra una città più elegante, rinnovata. Anche la Bolognina è cambiata tantissimo: c’è stata una riqualificazione incredibile, e penso a quando, un tempo, bisognava fare attenzione a girarci. Ora invece è diventata un quartiere vivo, aperto, in crescita. Bologna si sta allargando e si sta riqualificando in modo meraviglioso — anche grazie a ragazzi come i Kintsugi, che con la loro musica e il loro impegno hanno contribuito a darle nuova linfa.

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