I Daft Punk hanno i caschi, Dargen D’Amico ha gli occhiali da sole, Gente invece ha il suo cappellino.
Sotto quel cappellino c’è la testa di Renato Stefano, classe 1993, giovane esordiente nella scena musicale italiana che ha incuriosito tutti con solo quattro pezzi e alcuni esperimenti, come uno dei primi video verticali su Youtube.
Io mi permetto di inserirlo nella categoria del “cantauto-rap” coniata da Dargen D’Amico. Sì, perché Gente ha davvero qualcosa da dire e non ha timore di affrontare temi esistenziali e complicati. Lo fa però con uno stile tutto suo, facendo il paroliere e divertendosi ad incasinare le nostre menti. Renato si è raccontato davanti ad un enorme mixer di Fonoprint a Bologna, studio di registrazione da cui sono passati personaggi come Vasco Rossi, Zucchero e Lucio Dalla, dove ora sta registrando il suo primo album.
Partiamo da Sanremo. So che hai detto no alla chiamata.
“Ho detto no perché penso sia giusto prima camminare con le proprie gambe: non credo che Sanremo sia una merda o qualcosa da evitare, ma ho scelto di farmi le spalle. Dire subito di sì sarebbe stato bruciare le tappe e fare il passo più lungo della gamba”.
Fammi indovinare chi sostieni…
“Totalmente sponda Ghemon: uno dei miei papà musicali”.
L’inizio del progetto Gente è stato particolare: per un certo periodo non hai mai mostrato la tua faccia.
“Non ho mai avuto l’idea di fare qualcosa in stile Liberato, per rimanere nell’incognito all’infinito. C’era soltanto la volontà di far ascoltare prima la musica piuttosto che far giudicare subito l’immagine dell’artista”.
La tua sembra una vera storia hip-hop underground: dai campetti locali al fare il cantante. Com’è successo? Come si parte oggi da zero?
“L’evoluzione è stata per certi versi lunga e per certi versi veloce: io parto nel 2012 con lo pseudonimo ‘Runner’ nel collettivo ‘Pro Evolution Joint’, insieme a personaggi come DrefGold, Inda e Sasha Shinezz. Faccio uscire un pezzo, ‘Rap Tipo’, che diventa quasi una hit a Bologna con cinquantamila views su Youtube: ai tempi sembravano un milione. In quel periodo facevo tutto un po’ per hobby e un po’ per cazzeggio, non pensavo minimamente di fare sul serio”.
Poi però qualcosa è cambiato nella tua testa.
“Col tempo ognuno ha preso la sua strada, io però ho capito che avevo ancora qualcosa da dire. Ho cominciato a fare qualcosa più a modo mio, senza sentire nessuno. Con un giro di conoscenze sono arrivato alla Inri con cui è scoppiato subito l’amore, chiedendomi di entrare nella loro etichetta”.
I tuoi lavori hanno legami con Bologna, come il video di Genere. Che rapporto hai con la città?
“Io sono di origini baresi, però i miei genitori sono venuti a Bologna quando avevo dieci anni, quindi sono cresciuto immerso nella realtà bolognese: la mia vita e i miei amici sono tutti qui. Bologna è la base di partenza di tutto e musicalmente mi ha formato moltissimo. Il video di ‘Genere’ è in un locale pazzissimo di Bologna in Strada Maggiore che si chiama ‘Brexit’. È un piano sequenza di Andrea Ranzi, regista di tutti i miei video (escluso ‘gentegentegente’ con regia di Alessandro Amante) nonché mio migliore amico: questo per farti capire quanto sia homemade tutto il progetto”.
Hai dei luoghi particolari in cui scrivi?
“Non collego la scrittura ai luoghi, è una questione mia personale e mentale. Solitamente vengo impossessato da una sorta di demone che mi coglie spesso impreparato e poi se ne va, quindi può succedermi ovunque e in qualsiasi momento. Penso sia qualcosa di scomodo, perché magari sei con la tua ragazza e l’unica cosa che puoi fare è isolarti nel suo bagno di casa e fingere di star male. Hai paura di perdere il flusso e di non recuperarlo più”.
I tuoi testi non sono mai scontati: giochi con le parole e affronti temi attuali, ma sempre con leggerezza. Pensi ci sia ancora spazio per chi ha voglia di dire qualcosa con la musica? Non c’è la paura di rimanere isolati?
“Stiamo attraversando un periodo in cui spesso la parola viene uccisa per favorire suoni e versi. È tutto concentrato sulla musicalità a discapito dei temi, che invece mirano solo ad arrapare i ragazzini: il sesso, i soldi, la codeina. Sta diventando una sfida complicata, però la paura non la sento. È vero c’è un pubblico che cerca questo, ma non credo che tutti lo vogliano, perciò sono convinto ci sia ancora spazio. Secondo me se un progetto merita, da un punto di vista creativo e artistico, in un modo o nell’altro riesce ad emergere”.
Quindi la parola per te è più importante dei suoni?
“Penso che la sfida oggi sia questa: parlare di temi complessi, che ci possono far riflettere, però in maniera leggera. Questo forse è il modo migliore per affrontare i grandi temi. Io non sono un musicista: ho un buon orecchio, so stare sul tempo e le canzoni partono da mie idee melodiche, però non so suonare otto strumenti. Quello che credo di saper fare meglio è essere un paroliere, perciò la parola per me è sempre assolutamente al centro”.
Conoscerai sicuramente Dargen d’Amico. In una delle sue canzoni Un fan in Basilicata (Almeno) riflette sul tema della fama, sull’essere artisti di nicchia o essere celebrati dal grande pubblico. Qual è il giusto compromesso tra essere puri e l’affacciarsi al mercato?
“Dargen lo conosco eccome! Lo considero uno dei miei ‘papà’ musicali insieme a Dutch Nazari, Ghemon e il primo Jake la Furia. Il punto è questo: se uno lo fa di mestiere nella vita e ci deve mangiare, è un aspetto con cui deve fare i conti. Ci sta adattarsi, ma senza snaturarsi. Alla fine, come tutto nella vita, nel lavoro, nelle relazioni, serve sempre il giusto compromesso. Magari in alcuni aspetti ti lasci più andare e in altri fai totalmente quello che preferisci”.
In Gentegentegentegente, quello che probabilmente è il tuo manifesto, mostri una preoccupazione per il fatto che le persone non riescano ad essere quel che vorrebbero essere. Abbiamo un problema a mostrarci per quel che siamo?
“Secondo me le persone riflettono su quello che vogliono essere davvero, ma spesso si vergognano come dei cani a mostrarsi per quel che sono o a dirlo ad alta voce”.
Raccontami del video di Odia la verità: sei stato uno dei primi ad utilizzare il verticale, ma soprattutto sembra una puntata di Black Mirror.
“Sì, a livello italiano è sicuramente uno dei primi video verticali ed è stato Paolo, uno dei miei manager, a lanciarmi la sfida. Io e Andrea abbiamo cercato di riprendere ‘Her’ di Spike Jonze, declinandolo alla Black Mirror. Il video e la canzone si fondono per mettere in evidenza qualcosa che penso si stia concretizzando: ormai esiste un distacco tale nelle relazioni umane che si possono avere relazioni anche con dei software, senza coglierne la differenza”.
A proposito di Serie Tv, Tutte le serie parla proprio di questo. Nella canzone dici: “Che non siamo più autori ma attori, se viviamo sul divano e tivù”. Quanto abbiamo ancora in pugno le nostre vite?
“Io stesso mi sto rendendo conto che sta diventando sempre più difficile. Gli unici momenti di condivisione che abbiamo a disposizione con amici e fidanzate spesso vengono assorbiti da momenti di non-condivisione, come il vedere passivamente una serie tv sul divano. Forse la verità è che siamo diventati degli ‘spett-attori’ delle nostre vite senza rendercene conto”.
Quanto manca al disco nuovo? Come ci stupirai?
“Ne stiamo parlando in questi giorni, ma dovrebbe essere l’anno buono sia per il disco che per qualche data. Io sono carichissimo, farei uscire tutto domani se potessi. Pensa che Gentegentegentegente’ e ‘Genere’ sono due pezzi che ho scritto diversi anni fa e ora quasi le odio, perché le sento vecchissime: per me appartengono alla preistoria. Adesso sento di essere evoluto musicalmente. Se in meglio o in peggio non potrò giudicarlo io ma gli altri, per questo non vedo l’ora di far uscire roba fresca”.
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