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Coronavirus, come cambia la vita nelle nostre case. Il progetto fotografico di Max Cavallari

25-03-2020

Di Silvia Santachiara
Foto di Max Cavallari

Sulla tavola i resti della cena. Al centro il computer.

Niente film, non è una sera come le altre.

È il 10 marzo 2020 e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia in diretta streaming il blocco nazionale per fronteggiare l’espansione del Coronavirus sul territorio italiano. Vengono chiuse tutte le attività commerciali esclusi supermercati e farmacie e viene vietato alle persone di uscire di casa se non per comprovate motivazioni di salute, lavoro o necessità.

Allora è una roba seria questo è stato il primo commento che ha rotto il silenzio assordante. “Non è più una cosa su cui scherzare, avete visto? Hanno bloccato tutto, non è più solo la Lombardia, lo immaginavo ma mai mi sarei aspettata succedesse così in fretta”.

Poche parole. Potenti. L’unica voce che continua a sentirsi ininterrottamente è quella di Conte. Davanti a quello schermo le espressioni di chi ha capito che da quel momento niente sarebbe più stato come prima.

Max Cavallari le ferma in uno scatto in bianco e nero.

Fotografo professionista di Bologna, qualche giorno prima del decreto che ha fermato un’intera nazione inizia a percepire che non c’è nulla su cui scherzare e che la questione sta diventando seria. Decide di raccontarla, in un diario giornaliero.

Giorno dopo giorno ci porta dentro la sua casa, nella quotidianità di una comunità che a modo suo cerca di ritrovare una nuova stabilità, tra i nuovi oggetti di questa pandemia e i suoi spazi: il termometro, i guanti, il cellulare, il balcone, la cucina. Ma anche nella vita di altre realtà, come le palestre e le Università. Per raccontare, in fondo, qualunque altra casa, qualunque altra piccola comunità.

Nel frattempo Max, insieme ad altri tre fotografi professionisti, Michele Lapini, Valerio Muscella e Giulia Ticozzi, danno vita ad un progetto collettivo più ampio che include diversi fotografi di tutta Italia. Da Bologna a Napoli, da Venezia a Roma, un atlante visivo della pandemia per raccontare per immagini la solitudine di un’Italia tenuta unita dall’emergenza. E far vedere a chi è chiuso in casa cosa succede là fuori. Si chiama Arcipelago-19.

Le piazze deserte, un ragazzino solo in cortile, al buio, con la palla tra le gambe, gli “invisibili” che non possono restare a casa e che ora tornati visibili tra le strade vuote. La gente che si saluta dalla finestra, la quarantena con familiari fragili, il reparto di terapia intensiva di un ospedale. Chi ha festeggiato il compleanno da solo e chi non si è mai potuto fermare, come i riders.

Quando hai iniziato a percepire che qualcosa, nella nostra quotidianità, stava davvero cambiando?

“Ho amici a Shangai, dove sono stato per lavoro da gennaio a maggio del 2019. Mi raccontavano la situazione, come veniva affrontata dal Governo, quali misure precauzionali erano state prese, ma qui era una cosa che vedevamo lontana.

Ho iniziato a scattare l’8 marzo. Ero da Bricoman e ho visto separè in legno e pellicola trasparente alle casse per dividere cassieri da clienti. Erano le prime misure cautelari, non ancora così forti. Piccole cose, solo Codogno era zona rossa, ma si iniziava a percepire che qualcosa stava cambiando e che la comunità stava iniziando ad affrontare, in qualche modo, il virus. Poi l’escalation, fino al Decreto del 10 marzo”.

 

Secondo te non era così chiara, nei giorni precedenti, la portata dell’emergenza?

“Ad inizio marzo il virus per noi era ancora fantomatico. L’abbiamo presa sotto gamba, non avevamo le basi, qualcosa ci arrivava dalla Cina ma nulla di più. Poi Codogno, ma non era semplice capire cosa fosse vero e cosa falso. Non era semplice nemmeno capire se era una fobia generale. I media hanno fatto la loro parte in questo, poi i toni sono cambiati e diventati più tranquilli. Adesso viene riportato davvero quello che succede realmente”.

Cosa stai raccontando con questo progetto?

Il progetto vuole raccontare come le comunità stanno affrontando il virus e come stanno vivendo la quarantena. Racconto la vita di una piccola comunità, casa mia, ma in realtà racconto la vita di una qualsiasi altra comunità che sta vivendo questa situazione. Poi mi sono concentrato anche su altre realtà, come si reinventano, quali soluzioni trovano per continuare a lavorare, come le palestre che hanno lanciato corsi online o le lezioni universitarie online. Ritraggo singoli soggetti per documentare una situazione più generale”.

 

Come è cambiata la vita della tua piccola comunità?

“Questo virus ci ha legato di più. Prima di questa emergenza, quando non ero a scattare, lavoravo in casa per post produrre e selezionare le mie foto, mentre le mie coinquiline erano in ufficio. Poi ci siamo ritrovati a convivere e non era così scontato che ci avvicinassimo: pranzi e cene insieme, allenamento, discussioni sulla questione. Adesso negli ultimi giorni ho trovato un’altra sistemazione temporanea, per il bene comune. Una scelta presa insieme” 

 

Hai fotografato anche un termometro. Timore ossessivo del contagio o responsabilità verso se stessi e gli altri?

“È un automonitoraggio che ciascuno sta cercando di fare. La vedo come una responsabilità civile e sociale, con i mezzi che abbiamo”.

 

Qual è uno degli aspetti che sta influendo maggiormente sulla qualità della vita?

“L’isolamento è sicuramente una prova di forza che coinvolge tutti. Lo stress di essere forzatamente chiusi in casa porta anche a giornate ‘storte’. In fondo, siamo tutti animali sociali. Ogni tanto qualcuno passa a salutarci dal balcone. L’isolamento è una novità per tutti noi, nelle comunità più piccole fino alla dimensione globale”.

In qualche modo però, paradossalmente, ha rafforzato i rapporti.


“Si, non ho mai avuto così tanti contatti con amici all’estero, da New York, al Libano, a Israele. Mi contattano per sapere come sto, com’è la situazione. C’è stata un’impennata dal punto di vista delle relazioni. Ora più che mai ne stiamo percependo il valore”.

 

C’è un’immagine che più di altre ci mette davanti alla consapevolezza dell’isolamento. Siamo in Stazione. Questo ragazzo è solo. Indossa una mascherina e guarda uno schermo. Intorno il vuoto.

“Sì, quell’immagine racconta le comunità che non possono muoversi o che costrette a farlo”.

C’è anche il Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna, nei tuoi scatti.

“Zuppi ha deciso di far suonare le campane della Cattedrale. Non suonavano dal Dopoguerra, a eccezione del giorno dell’anniversario della nascita dell’Università di Bologna”. 

 

Un altro fattore importante è la percezione dell’indeterminatezza. Non sappiamo quanto durerà e quando potremo tornare a riprendere la nostra vita, da dove l’avevamo lasciata.

“Ho iniziato proprio per questo motivo perché non si sa quanto durerà ne come influirà anche sulle nostre scelte future. Credo però che la questione economica ora sia da tenere un attimo in disparte, nonostante ne siamo coinvolti tutti, me compreso. La prima emergenza è quella sanitaria, capire come affrontare questo virus, che personalmente è prioritario. Poi faremo i conti con la questione economica”.

L’immagine per te più significativa?

“Quella che racconta il momento in cui ci siamo resi conto che non si stava più scherzando. E che le scelte del singolo avrebbero deciso le sorti di una intera comunità. Era il 10 marzo e Conte annuncia in diretta streaming il blocco nazionale”.

 

Ci sono aspetti di questa quarantena che ancora non hai documentato e che ti piacerebbe raccontare?

“Mi piacerebbe ricevere storie che raccontano come ciascuno sta affrontando il proprio isolamento. Ad esempio come lo stanno facendo le famiglie. Ci sono tante tematiche che potrebbero rientrare nel progetto. E poi mi piacerebbe intervistare i guariti, chi l’ha già passato”.

 

E’ nato il progetto Arcipelago–19. Un atlante visivo della Pandemia, dove le città sono divise non dal mare, ma dalla quarantena

Cercheremo di raccontare la condizione che il nostro paese sta vivendo attraverso l’occhio di fotografi da tutta la nazione. Dando la possibilità a chi è costretto a casa di avere una testimonianza di ciò che succede fuori. Lo facciamo perché riteniamo giusto raccontarlo e perché un senso di unione, ora più che mai è necessario per tenerci legati l’un l’altro”.

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