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Dalle carceri messicane ai campi Rom di Belgrado. Intervista al fotografo Daniele Stefanizzi

28-05-2024

Di Laura Bessega
Foto di Daniele Stefanizzi

Fotografo per passione, fisioterapista per lavoro, viaggiatore per indole, curioso per natura, Daniele Stefanizzi nasce a Lecce, ma vive e lavora a Bologna. Lo incontro in un bar del centro. Capelli castani, carnagione olivastra, lineamenti marcati rendono multietnici i suoi tratti e ambigua la sua appartenenza italica. Escamotage che in passato, grazie al fatto di essersi spacciato per argentino, potrebbe avergli salvato la vita.

Avendo letto che ha girato per il Giappone, Messico, Belize, Serbia, Madagascar, Turchia, Germania, Birmania, Bosnia, Spagna, Israele, Nepal, Francia, Etiopia, e sicuramente ne ho dimenticato qualcuno, gli chiedo qual è il posto dove ha avuto più paura in assoluto. Con mia grande sorpresa, uno che ha fatto un lungo progetto sulle carceri messicane, mi risponde: «il Perù. Paese che ho visitato parecchi anni fa e ho trovato relativamente tranquillo.

Comunità Rom

«Sono partito nel 2014. Zaino in spalla, giravo per le Ande peruviane e ho conosciuto una ragazza franco-tunisina che lavorava per una ONG. Siamo diventati amici. Al tempo collaborava con un professore di storia e mi ha proposto di andare con lei per fotografare una ex miniera di mercurio, dove sono morte un sacco di persone per le inalazioni. Siamo partiti all’alba, alle 5 di mattina. Ne è nato un progetto che è stato pubblicato sul magazine bolognese Witness Journal. Una sera, lasciando la cittadina di Ica dove l’avevo raggiunta, mi sono ritrovato a viaggiare su un combi, come viene chiamato uno degli autobus notturni. A un’ora imprecisata della notte sento gridare: Juancavelica de Santa Barbara! Mi sveglio di soprassalto e dico: “Para para para! Fermati fermati fermati!”. Scendendo ancora mezzo assonnato, non mi accorgo che mi seguono due uomini. «Ma chi sono questi?” mi chiedo. Alle 4 di mattina a 4.000 metri alla fermata dell’autobus ci siamo solo io e due peruviani, piccoli ma con al collo due grandi mitra rivestiti di scotch. Ovviamente sono sbiancato.

“Dove vai?” mi chiedono. Gli racconto che sono argentino per non fagli capire che invece sono straniero. Aggiungo che sto studiando con un professore di storia della zona. “Sei sicuro?” Incalza uno. “Si sto cercando un b&b, domani incontro degli amici”. Camminiamo per 500 metri, loro due a fianco a me».

Meglio a fianco che dietro – commento.

«Meglio a fianco indubbiamente». Ridiamo. «C’è un’insegna. Bussano. Apre la porta un signore anziano. “El chico tiene que dormir” gli dicono in modo autoritario. Non ho mai scoperto chi fossero ma è probabile che girassero per le piantagioni di coca. Lì ce ne sono tantissime».

Comunità Rom

Com’è nato il tuo amore per la fotografia?

«Da sempre ho avuto la passione per quest’arte. Durante le vacanze, le fotocamere erano una costante. La passione dei ricordi. Chi non ce l’ha?».

 

E poi ti è rimasta nel DNA questa passione. Nella mia famiglia mia c’erano le diapositive. Mio padre aveva una vera e propria fissa…

«Mio papà, invece, aveva la macchina fotografica, una macchina normalissima, non aveva nessuna conoscenza tecnica ma scattava sempre e poi si andava a sviluppare le foto. Foto ricordo. Ancora adesso che sono grandi, i miei genitori ne guardano tantissime. Hanno dei veri e propri cataloghi. Anch’io fotografavo di continuo, senza regole. Ho iniziato coi tramonti, le albe, i fiori, l’ABC insomma. Alcuni fotografi si vergognano a dirlo. Io no, per me è bello».

Ilakaka

Da qualche parte bisogna iniziare…

«Mi sono sempre piaciute le persone, i volti, perciò poi ho iniziato a fotografare gli amici».

 

Beh fotografare persone vicine a sé è il primo esercizio che consiglia Annie Leibowitz.

(Sorride). Se Cartier Bresson è considerato il padre della fotografia, Annie Leibowitz potrebbe tranquillamente esserne una madre contemporanea. Mi racconta che non ha mai tradotto questa sua passione in un vero e proprio mestiere. Ha preferito fare qualcosa che gli desse la possibilità di lavorare subito. Daniele si laurea in una facoltà che è molto lontano dal mezzo fotografico: la fisioterapia. Mi dice:

«Per me la fisioterapia è un mezzo.

 

Un mezzo?

«La fisioterapia è bellissima. E mi permette di entrare in contatto con molte persone. È il mio lavoro e quelle quattro ore al giorno, le faccio bene. È 19 anni che pratico, ma non è il mio futuro».                                                                                                       

Io invece ho sempre pensato alla fotografia come a un un mezzo. Per dire qualcosa di sé o raccontare il mondo che ci circonda. In quello che sembra un gioco di parole Daniele ha unito i nostri due pensieri.

«La fisioterapia per me è un mezzo per fotografare e la fotografia è un mezzo per raccontare ciò che mi interessa».

 

Allora raccontami come la fisioterapia è diventata un mezzo.

«Diversi anni fa sono partito per il nord dell’Etiopia. Una fotografa aveva un bisogno di fisioterapista. Mi ha detto:”guarda, se vieni qui hai la possibilità di fare entrambe le cose”. Ho iniziato i primi progetti ritraendo i miei pazienti. Non ho più smesso di viaggiare e fotografare. Quattro anni fa sono arrivato tra i 30 finalisti per gli scatti singoli al Festival della Fotografia Etica di Lodi, dove ho esposto».

Ilakaka

Qual è stata la tua prima mostra?

«Bresson. In Spagna, a Granada o a Barcellona».

 

Sei partito subito dal padre della fotografia…

«Si. E poi adoro viaggiare. Guardavo le foto di McCurry».

 

Ti piace ancora?

«No, non mi piace più. Però non posso non ammettere che ci son passato. Comunque ha inventato un genere. Dovresti vedere il suo lavoro sui monsoni degli anni ’70-’80. Nel 2013 ero a Kathmandu e in un mercato ho comprato un suo libro sui monsoni. È un reportage bellissimo».

Forse avrà ragione ma non mi ha convinto. Steve McCurry, il fotografo più amato d’Italia, non mi è mai andato a genio. L’ho sempre considerato sovrastimato e un pò ruffiano. Un giorno mi sono imbattuta in un articolo del New York Times dal titolo: Una foto troppo perfetta che sposava perfettamente i miei pensieri. “Quando vedi una foto di McCurry, la riconosci subito. Il suo lavoro è netto e diretto, con colori intensi, un chiaro richiamo emotivo e una composizione nitida. Il soggetto guarda direttamente verso la fotocamera, con gli occhi spalancati e solitamente è caratterizzato da qualche particolarità, come iridi chiare, pittura sul viso o una cicatrice. Il risultato sembra incarnare un certo ideale della fotografia: la regola dei terzi, un netto equilibrio tra primo piano e sfondo e un evidente punto di interesse primario, posizionato con precisione. Boring but also extremely popular!

Le fotografie di McCurry indubbiamente piacciono. Sono pensate apposta per piacere, ma raccontano spesso luoghi e persone in modo stereotipato. Un esempio su tutti, l’India. Di tutt’altro genere sono le narrazioni che si interrogano su un determinato argomento o problema sociale.

Carcere del Messico

A un certo punto sei passato dai viaggi al reportage. Come hai fatto a entrare nelle carceri messicane?

«C’entra sempre la fisioterapia. Siccome sono anche un appassionato di sport, ho fatto un master in terapia manuale per gli sportivi a Saragozza in Spagna. Avevo un coinquilino messicano incredibile e  amante della fotografia. Dopo qualche anno mi ha invitato a fare un workshop di posturologia, naturalmente in Messico. Lavoravo il weekend e durante la settimana ero libero. Ho sempre viaggiato solo. Ma mi fermavo a parlare con le persone per strada. Anche per tre, quattro ore, per farmi raccontare la loro storia. Il Messico è un posto pericoloso. Quando arrivi in un posto come Mexico City (da poco non di chiama più Defe, Distretto Federal) sai che il taxi te lo fai chiamare dal B&B o dall’hotel. Però non è che arrivi lì e la gente ti ammazza perché sei un turista. Mi è sempre rimbombata in testa questa cosa: le carceri messicane sono le più pericolose. Lo dicono nei documentari, nei film. E così mi sono chiesto: chissà com’è parlare con un detenuto? Ricordo ancora l’emozione del giorno in cui ho preso un Uber e mi sono presentato davanti a un centro di detenzione. “Sono un fotografo italiano. Vorrei parlare col direttore”. Scopro che è un insegnante di educazione civica che è riuscito a instaurare un nuovo modello di carcere, poco violento ma ricco di attività. Era la combo perfetta. Avrei raccontato non la brutalità delle carceri messicane ma il nuovo modello presente a Merida, Tekashi e Valladolid. Dopo un primo rifiuto e il rientro in Italia, numerose mail e 8/9  mesi di nulla, nessuna risposta, durante una cena dal mio amico messicano, mentre tutti mi prendevano in giro scherzando sul fatto che volessi entrare nelle carceri, sua sorella mi dice che conosce una psicologa che lavora all’interno del Cereso, il centro di detenzione di Merida. 1180 persone, qualche donna e tanti uomini, per lo più piccoli narcotrafficanti.  Se stai vendendo droga, è un delitto contro chi? In Messico lo chiamano delitto contro la salute pubblica. Per me è bellissimo questo termine. Non ci sono solo i narcos però. Molti sono dentro per femminicidio e alcuni anche per pedofilia. Provengono per lo più nelle zone rurali, dove il substrato sociale è più povero e c’è molta ignoranza».

Carcere del Messico

 

 

All’interno del carcere c’è una storia o una persona a cui sei legato?

«Juan Carlos, un ex pandillero…»

 

Cioè?

«Un piccolo delinquente di gang criminali legate a un quartiere o a un territorio. Lui aveva ammazzato un altro ragazzo. Oggi è libero, fa il muratore ed è un pugile semiprofessionista. Lo sport lo ha salvato. Il 66% dei detenuti di Merida e degli altri due centri non rientra in carcere. Ha imparato un lavoro, ha una possibilità, una prospettiva.

Ho sempre pensato che qualcuno che ammazza volutamente una persona meriti il carcere. Oggi ho un pò cambiato idea. Merita anche una seconda possibilità. Nelson aveva solo 13 anni quando ha ammazzato un suo coetaneo. Mi ha aperto le porte della sua casa e ho avuto modo di conoscerlo. Quando sono ripartito per l’Italia l’ho abbracciato e gli ho detto che gli volevo bene. Sono riuscito ad andare oltre i limiti che pensavo di avere, capisci?!»

Daniele Stefanizzi

Campo Rom

Capisco. O almeno ci provo. Ora a cosa stai lavorando? 

«Sto seguendo un progetto sui campi Rom a Belgrado, uno dei posti più duri che abbia visto».

 

Perchè? Com’è nato?

«C’entra sempre la fisioterapia. Qualche anno fa ho avuto un paziente che ora è giornalista. Parlavamo spesso di fotografia e siamo diventati amici. L’anno scorso mi ha telefonato per coinvolgermi in questa storia sulle materie riciclabili nei campi Rom della Bosnia. Raccolgono tutto quello che c’è per strada per rivenderlo alle multinazionali. Chili di plastica, ferro e altri materiali per cifre ridicole. Circa 0,05 centesimi a chilo».

 

Quanto ci si impiega a raccogliere un chilo di materiale?

«Tantissimo. Vanno in giro in bicicletta e mettono tutto nel cestino. Poi lo portano nei loro campi e il posto dove vivono diventa una grande discarica a cielo aperto. A questo aggiungici che molta gente spesso passa di notte e butta dentro anche i propri rifiuti. Ora sto continuando questo progetto in Serbia con l’ONG A11. Ci sono migliaia di campi Rom in quelle zone».

 

Segui questi progetti con tanta passione. Chiudo quest’intervista chiedendoti: cosa si prova a non poter vivere solo di fotografia?

«A volte ho paura che facendo questo lavoro tutti i giorni, seguendo delle direttive e non la mia curiosità, mi potrebbe stancare. Ma sarebbe anche una bella sfida. Ma se mi proponessero di farlo, senza dubbio ci proverei».

 

 

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