Ci siamo conosciuti su Facebook, ci siamo scritti su Whatsapp, ci siamo parlati via Skype. Inizia così l’intervista, decisamente 2.0, a Federico Borella, fotogiornalista bolognese classe ‘83, che da 10 anni scopre, ritrae e racconta storie di cronaca ordinaria e straordinaria, possibilmente da un capo all’altro del mondo. Quando ci sentiamo in un sabato di maggio sono le 18:00 ora italiana, le 23:00 per lui che mi risponde dall’India. E la prima domanda non poteva che essere cosa ci facesse lì…
“In questo momento mi trovo nel sud del paese, in uno Stato che si chiama Tamil Nadu e sto lavorando ad un nuovo progetto sui cambiamenti climatici. In particolare, sulle comunità dei contadini che a causa di questi cambiamenti vengono forzatamente portati al suicidio. A giugno scorso una ricercatrice dell’Università di Berkeley ha pubblicato uno studio in cui ha messo in evidenza questa relazione: stiamo parlando di circa 60.000 morti negli ultimi 25 anni. Qui, in particolare, il problema è legato alla recente siccità del fiume principale della regione da cui, però, dipende l’economia di numerose famiglie di contadini. Io per il momento, grazie all’aiuto di un’Associazione, ho incontrato quattro famiglie i cui contadini si sono uccisi l’anno scorso, nel 2017, e che hanno dovuto trovare forme di sostentamento diverse dall’agricoltura”.
Tra i lavori più apprezzati di Federico, che all’India ha dedicato altri due servizi – Sheroes, vittime eroiche di attacchi con l’acido, e Living with the attacker, storia di Geeta e Neetu, mamma e figlia sfigurate dal marito/padre/assalitore – ci sono anche servizi come The enduring life of a quad amputee veteran, ritratto del veterano senza arti Todd Nicely iniziato nel 2014 e Women of the sea sulle donne-sirene-pescatrici Giapponesi.
India, Giappone, Norvegia…come decidi che c’è un posto e una storia da raccontare?
Prima cerco il paese, dopodiché mi guardo anche per mesi le notizie locali di quel paese e partendo sempre da una notizia, ovvero da un fatto che compare sui quotidiani, cerco di svilupparla a lungo termine. Il mio lavoro si ispira a quello di una serie di fotografi e, in primis, a quello di una fotografa e del suo progetto più titolato – forse uno dei più bei pezzi di fotogiornalismo al mondo – “Family love” di Darsy Padilla che ha impiegato 20 anni a seguire la storia di una donna di San Francisco. In generale, sono contrario al lavoro fatto in pochi giorni: è evidente che ci sono alcuni progetti autoconclusivi, come l’ultimo che ho fatto sulla comunità curda in Giappone, ma più spesso cerco di portarli avanti nel corso del tempo perché sono convinto che da questo dipenda anche la qualità del servizio stesso.
Le tue storie durano anni: oltre al bagaglio emotivo, porterai a casa con te una quantità di materiale importante. Cosa cerchi in una foto e quindi come scegli quelle che andranno poi sviluppate?
Bella domanda…provo a risponderti con una metafora. Quando componi o cerchi di comporre una storia è un po’ come la scaletta di un concerto: il primo pezzo musicale deve essere una bomba perché è quello che carica il pubblico, poi magari anche il secondo lo è. Ecco, già da lì ti puoi immaginare che se si facessero sempre solo pezzi sparati a mille o sempre tutti lenti, non ci sarebbe un’ alternanza. Funziona più o meno nello stesso modo la costruzione di un reportage, ci sono certe foto che devono dire qualcosa e delle altre più “traghettatrici” che portano ad un altro argomento, e così via.
Donne sfigurate dall’acido, droga, il marine sopravvissuto: sono temi, storie “delicate”, qual è stato il progetto più difficile?
Potrei dire tutti per motivi diversi. Prima della storia di Geeta e Neetu, la famiglia sfigurata dall’acido, c’è stato Sheroes su cui io e il mio collega Saverio ci siamo interrogati molto anche a livello di pianificazione. Poi, una volta arrivati qui, si è tramutato tutto nella cosa più semplice del mondo. Se avessimo pensato di avere a che fare con soggetti diffidenti, sbagliavamo: è stato esattamente l’opposto, e lì sono rimasto piacevolmente sorpreso. Ognuna delle Sheroes ha una storia terrificante alle spalle, però sono abbastanza abituate alla presenza dei media, nel senso che qui in India sono quasi delle star. Sono molto conosciute perché sono state le prime a iniziare una vera e propria campagna contro la violenza sulle donne e sull’uso indiscriminato dell’acido.
Però, proprio per il fatto che io in quel caso mi sono fermato per un mese, si è sviluppato un rapporto diverso. Se poi vedono che tu ogni anno torni per loro, ecco lì cambia non poco la relazione e la percezione. Qui purtroppo c’è la barriera linguistica che mi frega un po’ e devo avere sempre l’interprete. In altri progetti come Todd (il marines che ha perso gli arti – ndr), invece, non c’è nemmeno quell’ostacolo.
Nei tuoi progetti alterni bianco e nero e colori. Il tuo profilo Instagram, ad esempio, parla quasi esclusivamente in bianco nero: è una decisione che viene fatta a monte o in fase di sviluppo?
Fosse per me, avrei fatto tutto in bianco e nero fino alla fine dei giorni, ma non me lo posso permettere. Il mercato del bianco e nero attualmente è quasi invendibile, mentre il colore lo è molto di più. Io preferisco il bianco e nero perché è molto più personale: ci si concentra molto di più sull’emozione che trasmette lo scatto senza distrazioni. Poi in fondo la fotografia è nata in bianco e nero e su certi temi secondo me la fa da padrone. Se penso al lavoro di Todd a colori mi viene male!
Qualche consiglio per chi vuole diventare fotogiornalista?
Quando ho iniziato io mi hanno sconsigliato caldamente di intraprendere questa strada, ma è stato fatto volutamente e con il passare degli anni me ne rendo sempre più conto. E’ ovvio che è un mestiere di cui non si vive, sono pochissimi quelli che se lo possono permettere e forse saranno sempre meno. Partendo da questo presupposto, bisogna avere una volontà di ferro, deve essere veramente una cosa che soddisfa e in cui si crede. Alcune volte mi sento dire: “Ah ma almeno sei sempre in giro, vedi un sacco di cose”. Vero, però da un altro punto di vista bisogna avere i soldi per poter sopravvivere. Io fortunatamente per ora ho trovato la quadratura del cerchio: con la cronaca (quando non è in viaggio, Federico lavora come fotoreporter di cronaca per testate locali e nazionali – ndr) mi pago le bollette, mi finanzio i viaggi e i progetti personali. L’ingrediente indispensabile è sì la passione per il viaggio, ma soprattutto l’adattabilità perchè spesso si lavora in condizioni davvero pessime. Se lo si vuol fare, è giusto provarci senza fermarsi alle prime porte in faccia che arrivano a valanghe!
Ride Federico e, prima di salutarci, mi assicura che nonostante l’esperienza maturata sin qui, anche lui sta ancora imparando a gestire al meglio un lavoro che, dice, “è come scolpire il marmo: possono insegnarti la tecnica, ma poi devi metterci del tuo”.
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