“Con mio figlio ho fatto tanti errori, permettergli di indossare quei pantaloni rosa non è tra questi”
Si chiude il film, le parole si uniscono alle lacrime in sala e quando si esauriscono le prime rimangono i titoli di coda e le note di Canta ancora, un brano intenso composto e interpretato da Arisa.
Per centoventitre minuti siamo stati portati lungo la linea del tempo, ripercorrendo la vita di Andrea Spezzacatena: a partire dalla nascita e passando attraverso l’infanzia e l’adolescenza, fino al punto in cui si ferma.
La lavatrice fa partire la centrifuga, l’oblò sembra girare vorticosamente, i jeans rossi che gli aveva regalato la mamma escono rosa, insieme a tutto il resto della biancheria. Da qui inizia il calvario che porterà Andrea a togliersi la vita, dopo aver stretto in un lungo abbraccio la madre (interpretata da Claudia Pandolfi), che solo dopo la sua morte, entrando nel suo account Facebook, scoprirà l’esistenza di un profilo “Il ragazzo dai pantaloni rosa”. Una centrifuga, che è anche simbolo di un vortice di avvenimenti che nessuno riuscirà più a fermare, e dell’ansia, che in un climax crescente, ci divora. Andrea Spezzacatena aveva appena festeggiato il suo quindicesimo compleanno. Era il 20 novembre 2012 ed è stata una delle prime vittime di Cyberbullismo in Italia.
Tratto dal libro Andrea oltre il pantalone rosa di Teresa Manes, la madre di Andrea, Il Ragazzo dai pantaloni rosa racconta una storia vera, potente e necessaria.
Il film, diretto da Margherita Ferri, regista e sceneggiatrice che ha al suo attivo diversi film che raccontano storie di formazione, identità di genere e inclusione sociale (qui vi avevamo raccontato la sua storia in occasione dell’uscita di Zen. Sul ghiaccio sottile) e sceneggiato da Roberto Proia, continua il percorso di sensibilizzazione iniziato dalla madre di Andrea, che nel 2022 è stata insignita dal Presidente Sergio Mattarella del titolo di Cavaliere della Repubblica.
Una voce fuori campo, quella di Andrea (interpretato da Samuele Carrino), ci cala piano piano dentro la sua vita, ci trascina dentro le sue emozioni, nelle sue relazioni, come l’amicizia con Sara (interpretata da Sara Ciocca) con cui condivide la passione per il cinema. Un parabola discendente che dalla vita di un ragazzo come tanti scende all’inferno: un video diventa virale, la piazza pubblica dei social si infuoca e lo inghiotte. È l’ultimo atto di una lunga serie di umiliazioni. Una trappola senza scampo, non c’è più via d’uscita. “Quando sei adolescente non vedi la differenza tra essere socialmente morto ed esserlo per davvero. Anche in un’altra scuola io sarei sempre stato quella cosa li”, dirà Andrea.
Il ragazzo dai pantaloni rosa è un inno alla vita, ma ci porta ad attraversare l’umiliazione, la vergogna, la prevaricazione, la violenza, in una discesa senza freni che arriva alla pancia. Proviamo quello che sta provando Andrea e ci costringe a vedere chi siamo e quanto male possiamo essere in grado di fare. Questa è una storia che ci riguarda tutti, che siamo stati vittime o bulli. Oppure testimoni, quando abbiamo osservato senza fare nulla, senza nemmeno allungare una mano. Quando ce ne siamo andati nell’indifferenza. Siamo stati gli uni o gli altri, anche se solo in un momento della nostra vita.
La pellicola ci porta, scena dopo scena, anche dentro l’abisso della manipolazione. Christian (interpretato da Andrea Arru), il ragazzo bello e popolare della scuola, è magnetico. Tutti vorrebbero essere lui, anche Andrea, che cerca di compiacerlo, di farsi accettare, di essere stimato, andando oltre le atrocità. “A me Christian mancava, nonostante quello che mi aveva fatto”, dice la voce fuori campo. Ci riflettiamo in quella sicurezza, in Christian proiettiamo quella fame di approvazione. Ma è falso, quando la maschera si sposta lo vediamo in tutta la sua fragilità. Ferri non lo rappresenta come il male, ma come preda di un sistema che ci vuole vincenti, ingabbiato dentro canoni e aspettative sociali che lo portano ad uniformarsi agli altri e ad usare gli strumenti che conosce: la violenza e la prevaricazione. Gli stessi con cui cerca di distruggere Andrea.
Infine l’inganno: fingersi amico per poi perseguitarlo e infine pugnalarlo alle spalle davanti agli occhi di tutta la scuola. È il gran finale, la macchina da presa rallenta quasi a fermare il tempo. Andrea rimane immobile in mezzo alla sala da ballo. Intorno, come su una giostra al luna park, ruotano sempre più lentamente volti, bocche contorte, risate feroci, applausi, ghigni. In sala cala il silenzio. Non c’è più via di fuga per Andrea, hanno visto tutti. La scena è potentissima e non si dimentica nemmeno dopo essersi alzati da quelle poltrone rosse. Ma c’è di più. L’odio corre sul web, compare una pagina Facebook in cui si accumulano uno sotto l’altro decine e decine di commenti, offese, ingiurie che comprendono anche veri post della pagina Facebook creata a suo tempo. Andrea è solo. Impotente. Il mondo gli vomita addosso il suo disprezzo.
“Le parole sono come vasi di fiori che cadono dai balconi, se sei fortunato li schivi, ma se sei lento ti uccidono», dirà Andrea.
Le parole uccidono, ma possono anche salvare. Ma Andrea si chiude nel silenzio. Che diventa, di fatto, una condanna.
Margherita, quando hai capito che volevi raccontare questa storia?
“Questa storia mi è stata proposta tramite la mia agente, si trattava di una prima stesura di sceneggiatura, quindi una fase ancora primordiale. Ho pensato subito: questo è il mo film, lo devo fare io, lo so fare. La sfida è stata quella di realizzarlo in pochissimo tempo perchè la Eagle Pictures voleva riuscire a distribuirlo all’inizio di questo anno scolastico. Ho ricevuto la sceneggiatura a metà febbraio e a novembre il film è uscito nelle sale”.
Il tema è a te molto caro, hai all’attivo diversi film sulla ricerca dell’identità. In questo film ci sono molti pensieri di Andrea che cercano di farci capire cosa sentono gli adolescenti, quanto può essere difficile quella fase della vita. Più volte sei stata interessata a questa fascia d’età. Perchè?
“Mi sento a mio agio nel raccontare questo tipo di storie: storie di formazione, di ricerca della propria identità, faccio parte della comunità LGBTQ+ e quindi il tema dell’identità a me è molto caro, in particolare mi interessano storie di riti di passaggio”.
La voce narrante è quella di Andrea, che ripercorre la sua vita, interrotta a soli 15 anni. Come hai lavorato sulla sceneggiatura e quale tipo di taglio hai scelto di dare in termini di regia?
“La sceneggiatura è firmata da Roberto Proia e l’abbiamo sviluppata insieme. Sicuramente la caratteristica principale della sceneggiatura, e quindi del film, è l’assenza di giudizio dei personaggi. È un film senza retorica, senza colpe, senza buoni e cattivi. Ovviamente il bullo è l’antagonista, ma credo che gli esseri umani siano molto più complessi di così. Abbiamo lavorato sulle motivazioni narrative, drammaturgiche, che è un pò la chiave per raccontare qualcosa di autentico”.
Cosa rappresentano simbolicamente i pantaloni rosa?
“Rappresentano la libertà di esprimersi e di esprimere la propria identità. Andrea era un ragazzo libero, ho apprezzato da subito il modo in cui si raccontava la grande libertà di Andrea e della madre. Entrambi andavano contro le aspettative sociali. La madre decide di porre fine ad una relazione che non funzionava, mentre Andrea è fuori dalle dinamiche dei ruoli di genere, è diverso dagli altri, è puro, è se stesso. E questo crea con Christian un cortocircuito. Christian rappresenta come dovrebbe essere il maschio secondo le aspettative sociali e nel momento in cui si avvicina ad Andrea perde l’orientamento, entra in crisi “.
Cosa può fare il Cinema, che la cronaca non riesce a fare, nel raccontare storie vere? E quale responsabilità hai sentito?
“Cinema e cronaca sono proprio due mondi diversi. Il cinema è arte e l’arte è metafora, racconta una storia attraverso il linguaggio audiovisivo e attraverso le emozioni. Utilizza un diverso linguaggio ma ha la potenzialità di avere la stessa efficacia. Sicuramente il cinema è più libero”.
Qual è la scena a cui tieni di più?
“Sicuramente quella dei gavettoni all’uscita di scuola, accompagnata da un brano di Daniela Pes, Arca. Una scena che in sceneggiatura era ridotta ad una riga. Riuscire ad esprimere la solitudine di un ragazzo è stato un lavoro molto interessante, anche dal punto di vista visivo. E poi la scena della festa”
Una scena potentissima…
“Si, è una scena un pò Lynchiana…c’è una dimensione onirica, ti fa entrare direttamente dentro il punto di vista soggettivo ed emotivo di Andrea”.
Tra l’altro c’è anche l’inganno. Prima vediamo Andrea che si prepara per la festa, felice, aiutato dalla madre. Poi salgono in auto e alla madre viene qualche dubbio, gli chiede dove deve incontrare i suoi amici…e infine il tradimento.
“Anche a questa scena sono molto legata. Abbiamo lavorato molto con Claudia Pandolfi, che si è sentita molto coinvolta da questo film, avendo anche due figli, di cui uno adolescente. Diceva: voglio rispettare la privacy di mio figlio adolescente, vorrei entrare nel suo mondo ma c’è una porta davanti. Non so se aprirla o no e dove sta il confine. E quella scena è così: a lei qualcosa non torna, ma lui la rassicura”.
Il male interiore può essere molto più potente di quello fisico, soprattutto quello non espresso, trattenuto. le parole uccidono e I social sono il luogo dove le parole sono in grado di moltiplicarsi, perdendone il controllo, sono il luogo in cui tutti cerchiamo di rappresentarci come vincenti e dove ci accaniamo sulla fragilità, forse per evitare di fare i conti con qualcosa che in realtà ci accomuna tutti, come se ne avessimo paura. Quali domande hai voluto far arrivare?
“Le domande sono legate al rapporto che ognuno di noi ha con gli altri. Spesso pensiamo che le nostre parole siano scherzose, che non vadano a colpire in profondità. Questo film è un invito all’empatia, un invito a chiedersi: questa cosa che sto per dire come verrà percepita? Tutto il film ruota intorno al mettersi nei panni di Andrea, dell’altro. Noi sentiamo proprio i suoi pensieri. la domanda quindi è: Quali sono gli effetti delle mie parole sugli altri?”.
Perchè, secondo te, è così difficile esercitare l’empatia? Ma soprattutto, è qualcosa che si può imparare?
“Si certo, è qualcosa che si vive in modo diverso in base alla società. Sono molto arrabbiata e triste riguardo la situazione politica sia italiana che mondiale, che è l’esatto contrario dell’empatia. Tutto quello che arriva dall’alto è individualismo, sopraffazione, discriminazione, non accoglienza, mentre in realtà l’unico modo per stare bene è prendersi cura gli uni degli altri, l’accoglienza, la comprensione, il considerarsi tutti diversi ma con lo stesso valore. Purtroppo siamo un pò soli a doverlo fare”
Quale è stato il commento di chi ha visto il film che ti è rimasto più impresso?
“Me ne sono arrivati centinaia, molto simili. Dicevano: anche io sono stato Andrea, o avrei potuto essere Andrea. Sono stati i messaggi più forti. Altri erano di ragazzi giovani che dicevano: non ho subito bullismo però questo film mi dà la forza di intervenire se vedo un’ingiustizia”. Il bullismo è violenza, ma il bullo e la vittima da soli non costruiscono il fenomeno del bullismo. Al bullismo serve un pubblico”.
Di cosa, secondo te, non bisognerebbe avere paura?
“Non bisognerebbe avere paura del giudizio degli altri e di sentirsi diversi. Siamo tutti diversi ed esserlo è un valore, chi sbaglia sono quelli che ti fanno sentire sbagliato. Andrea era vittima di bullismo omofobico a prescindere da quale fosse la sua identità. Era giovane, si stava semplicemente facendo delle domande, ma gli avevano attribuito un’etichetta a causa di qualcosa che poteva anche non essere vero. E poi bisogna parlare, mentre Andrea si era tenuto tutto dentro”.
Condividi questo articolo