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Koralle: l’altra anima di Lorenzo Nada aka Godblesscomputers

17-12-2021

Di Beatrice Belletti
Foto di Beatrice Belletti

Credevo di saperne di musica, poi ho conosciuto Lorenzo Nada.

Noto ai più con il nome Godblesscomputers, Lorenzo ‘Nada’ Nadalin, dj, beatmaker e producer, sarà ospite del nostro evento AboutParty Xmas Edition, sabato 18 dicembre al Mercato Sonato, nelle vesti del suo progetto parallelo Koralle.

Ci siamo incontrati per parlarne, ma per buona metà di questa intervista ho il registratore spento. Una dimenticanza voluta, perché con Lorenzo non si può avere un approccio asettico; la sua professionalità, impeccabile, va di pari passo con un genuino interesse per il rapporto umano.

Mi offre le pantofole per gli ospiti e lo osservo scartare una dozzina di vinili come un bambino a Natale, enunciandomi titoli, artista, etichetta discografica, di quelli che sono per lo più nomi a me sconosciuti. Lorenzo è uno di quegli artisti che ha davvero una cultura musicale massiccia e varia, quasi intimidatoria. Immagino il suo cervello come un’enciclopedia di sotto generi catalogata alla perfezione, al pari della collezione di 33 e 45 giri presenti nel suo studio. «Non so più dove metterli, ma dovresti vedere quella di Bassi Maestro!» mi dice.

Lorenzo Nada è il tipo di persona che appare un po’ schiva, ma quando sorride irradia 60mila watt nella stanza, ha un approccio buddista alla vita, del «poche cose ma che ti fanno bene», per cui la musica «nasce soprattutto dal bisogno di raccontare una storia».

Come ha iniziato Lorenzo Nada a fare musica, prima di essere Godblesscomputers e Koralle?

«Il mio primissimo approccio con la musica è stato il pianoforte, studi di musica classica molto dogmatica, ma già a quei tempi mi ero preso benissimo con l’hip hop, quello che passava in radio: Articolo 31, Sottotono, mi ha aperto un mondo di scoperte verso gli Stati Uniti, gruppi come gli A Tribe Called Quest, De La Soul, Wu-Tang Clan.

Non volevo rappare, mi piaceva l’aspetto musicale, a Ravenna (città d’origine), con il primo gruppo che si chiamava Il lato oscuro della costa ho iniziato ad impratichirmi con tutto quello che è il mondo della produzione, come creare suoni, registrare voci. In un’epoca in cui internet era ancora seminale, non potevo guardare tutorial, spesso le cose le imparavi chiedendole alle persone più grandi di te, guardandole.

Sono sempre stato molto curioso, ho fatto un passo indietro e scoperto come funzionava il mondo del campionamento. Sai che l’hip hop era costruito proprio sui campionamenti di dischi jazz, soul, funk degli anni 60 e 70? Ascoltavo anche tanto di matrice elettronica che veniva dal’Inghilterra, non sono mai stato fan della techno, mi è sempre piaciuto il groove e il funk, quello che richiamava le radici delle black music.

Godblesscomputers nasce a Berlino in cui ho vissuto quasi 5 anni, e dove ho iniziato i miei esperimenti di musica senza le parole. C’erano già influenze e artisti come DJ Shadow, DJ Krush, che partendo dall’hip hop, ibridandolo con l’elettronica e togliendo le voci, mettevano la musica in primo piano.

Era un periodo di attenzione a questo genere anche da parte del giornalismo, che aveva notato una scena in Italia con Popolous, Clap! Clap!, Yakamoto, che facevano questa cosa nuova».

Mi hai detto che questo è l’anniversario dalla nascita del progetto Godblesscomputers, celebra i 10 anni. Mi racconti del passaggio a Koralle?

Koralle nasce nel 2019, con Collecting era un momento mio un po’ particolare, era uscito Solchi due anni prima e dopo un tour piuttosto lungo avevo bisogno di allentare.

C’è stato un momento in cui mi sono sentito un po’ paralizzato da un’ipotetica aspettativa del pubblico che mi seguiva. Volevo riappropriami delle mie radici, quello con cui sono cresciuto: l’hip hop, il beat strumentale e la mia passione per il jazz; ma anche per un immaginario che volevo creare fatto di dischi, fotografie, tutto molto analogico. È un progetto nato proprio tra beat e immagine.

Non avevo necessariamente la pretesa di far uscire qualcosa di strutturato, sono stato un po’ spinto a mandare qualcosa a Melting Pot, etichetta tedesca di Colonia, che per me è un punto di riferimento del genere sia in Europa che a livello internazionale. Da lì è nato Koralle come progetto discografico.

È seguito Fonografie con collaborazioni di MC internazionali, e Beat Kiosk tutto strumentale con Kuranes. Questo venerdì uscirà il quarto disco Still Life con l’etichetta HHV di Berlino, che è un grosso distributore di musica, nonché il negozio online da cui ho comprato più dischi in assoluto!».

Come pensi ti rappresenti in modo diverso rispetto a Godblesscomputers?

«Probabilmente Koralle rappresenta il mio lato meno cerebrale, Godblesscomputers è comunque un cantiere aperto dove ci sono tanti musicisti che intervengono spesso, è un progetto audio-visivo. Koralle è più estemporaneo, spontaneo, mi piace immaginarlo come degli sketch, dei disegnini su un foglio, che sono dei beat, che a volte durano un minuto e mezzo o due.

L’altra differenza è che Godblesscomputers ha un suono molto riconoscibile, ma a volte difficile da incasellare in un genere. Se mi chiedi che musica fa Koralle probabilmente dico lo-fi, beats, jazz, hip hop strumentale, sono entrato in un circuito che ha già un pubblico definito ed è più facile da raccontare».

Trovo interessante come definisci Koralle con metafore d’improvvisazione, cifra stilistica tipicamente Jazz, però il Jazz è mondo che ha molta storia dietro ed è distante da come si identifica l’elettronica, il mondo beat. Come vedi questo incastro?

«Il metodo di composizione è molto diverso. Il Jazz è fatto di estemporaneità, parte spesso da molti standard che vengono reinterpretati dai vari musicisti, le session live che costituiscono il disco nascono da jam spesso neanche troppo preparate.

Quello che fa un beatmaker è più un riscoprire qualcosa e trasformarlo. Mi piace l’idea di campionare da un disco, ma di renderlo irriconoscibile dal materiale a cui ha attinto.

Scegliere e trattare un campione è una forma d’arte, super creativa e innovativa. Il campionamento ha trasformato la musica contemporanea. Su questo si basa l’hip hop, uno dei generi più impattanti nella storia della musica da più o meno 40 anni.

Poi è stato integrato nell’elettronica, negli ibridi, nel rock. Anche i Pink Floyd, dei precursori, in Money avevano campionato il suono della cassa del negozio, registrata e messa in loop su nastro su cui hanno costruito il groove della batteria, è assurdo».

Qual è la tua percezione sul concetto dello “strumento”?

«Devo dirti la verità, trovo che le cose più interessanti, nascano proprio dalla commistione tra produzione, quindi strumenti outboard ed elettronici rispetto a quelli fisici veri e propri.

Sia con Godblesscomputers che con Koralle collaboro con musicisti. Quando sento che su un beat vorrei un giro di contrabbasso e mi trovo in studio a jammare con amici e buttare giù idee. Per me sono due linguaggi che se mischiati possono fare cose bellissime».

 

Cosa ti fa scegliere gli artisti delle tue collaborazioni?

«Il primo aspetto è di natura artistica, avere un background e ascolti in comune aiuta tanto, vuol dire che abbiamo la stessa sensibilità, più o meno sappiamo dove voglia andare l’altro. Per me è anche fondamentale che si instauri un rapporto umano con le persone con cui passi del tempo in studio e fuori: mangiamo insieme, beviamo una birra, ascoltiamo dischi. Questo rafforza il legame, crea un valore aggiunto nel momento in cui registri».

 

Abbiamo parlato prima di Isatta Sheriff, artista e attivista con cui hai collaborato alla traccia Laid Back, della tua passione e rispetto per la black music. Influenza potentissima in svariati generi e molto spesso non adeguatamente riconosciuta, ma oggi più che mai il clima sociale è caldo e si parla spesso di cultural appropriation. Come credi l’industria discografica possa renderle giustizia e come ti ci rapporti tu?

«Il punto è sapere cosa stai facendo, avere coscienza delle radici. Per quello che faccio io posso campionare jazz ma anche musica italiana, della cultura in cui sono cresciuto. Mi rapporto sempre con rispetto verso ciò che ascolto e come lo comunico, ma lo faccio anche in modo naturale. Per me è mediato, filtrato dalla mia sensibilità, fatto di ascolti e letture, film, ma anche di componente umana, dei miei rapporti. Non ho mai voluto scimmiottare nessuno».

Puoi prendermi 5 generi che hanno formato la tua identità musicale?

«Il suono dell’hip hop, del boom bap interpretato da gruppi come A Tribe Called Quest, De La Soul,  Slum Village, J Dilla, Pete Rock, figure che più o meno possono essere racchiuse all’interno di un grande contenitore ma con attenzione al campionamento di jazz, soul e funk.

Il jazz statunitense, i pianisti soprattutto: Bill Evans, è il mio preferito in assoluto. Anche lui super campionato, ha suonato anche dentro ‘Kind of Blue’ di Miles Davis. Un genio, le sue ballad mi fanno ancora venire la pelle d’oca.

Il Nu Soul quando è mischiato con la produzione – negli artisti fondamentali ci metterei dentro Erykah Badu, D’Angelo, Lauren Hill, Jill Scott. Ci trovo un filo conduttore con tutta la nuova scena inglese: Tom Misch, Jordan Rakei, Yussef Kamaal.

Nel mondo dell’elettronica, mi è sempre piaciuta molto la roba che viene dall’Inghilterra, che unisce il campionamento al suonato come Dj Shadow, Bonobo, e cose un po’ più oscure che richiamano più il dub come Burial.

Ultimo genere che mi ha influenzato tantissimo è quello che viene dalla Giamaica, quindi reggae roots, dub, i pionieri come King Tubby, Lee “Scratch” Perry, Scientist. Anche lì c’è un filo che lega Germania e UK, il suono che lega bassi e sound system; roba che mi flasha tantissimo e che credo si senta nella mia musica».

 

Cosa rende un producer un buon producer?

«Secondo me trovare una sua voce, proprio perché non usi la voce come strumento, quindi la cosa importante è trovare un linguaggio che ti rispecchi come persona.

Per me è più importante essere riconoscibili che piacere. Ciò che rende interessante un producer sta anche nella difficoltà di racchiuderlo all’interno di un genere. Prendi Burial che ho citato prima, cosa fa? Burial è Burial, puoi dire che prende dal 2-step inglese, dalla jungle, ma la musica oggi è fatta di rimandi e richiami che vengono filtrati, masticati, sputati e ripresi da qualcun altro».

 

Cosa ti emoziona in un nuovo ascolto?

«Di solito non vado in fissa con i gruppi, ma con le canzoni. Ci sono brani che riescono a toccarmi delle corde e in quel momento sono perfettamente allineate con quello che sono io, magari lo stesso pezzo in un altro momento mi scivolerebbe via, e invece lo ascolto a loop facendoli odiare a chi mi sta vicino» ride.

«Quest’anno ho fatto una playlist privata in cui ho messo tutte le canzoni per cui negli ultimi 10-15 anni sono andato in fissa, e alla fine mi sono reso conto di un aspetto comune: sono dei pezzi in realtà molto lenti, down tempo, che hanno un aspetto malinconico molto forte, però non tristi.

Un gruppo che ho ascoltato tantissimo sono i neozelandesi Fat Freddy’s Drop; ho avuto anche il piacere di aprirgli due concerti a Bologna, non mi faccio mai autografare i dischi da nessuno ma i loro sono tutti firmati! C’è questo pezzo che si chiama Flashback, dal primo disco, uno dei miei 5 dischi preferiti di sempre, che consiglio a chiunque di ascoltare. Dentro c’è tutto quello che per me è più figo della musica».

Quindi è più una reazione emotiva, non filtrata dalla componente professionale?

«Per me è un feeling. Mi sono reso conto che ho bisogno di una dimensione intima con quello che sto ascoltando. Ad esempio, sono andato a sentire James Blake, un artista che amo, era bellissimo vederlo dal vivo, però poi mi passava di fianco il tizio che ti sbatte addosso e ti chiede se vuoi una pasticca… Tutto ciò che era attorno a me nel contesto mi stava rovinando quell’esperienza.

Per quello forse le emozioni più forti le provo con canzoni che percepisco “mie”. Io poi soffro molto quando c’è l’hype intorno a qualcosa, e tutti ne parlano, ho bisogno di ascoltare senza il rumore di fondo».

 

Ti condiziona il “rumore” altrui?

«Mi infastidisce che tutti debbano avere un’opinione su tutto. Per me svilisce, il dover sempre analizzare pubblicamente, quello che interessa della musica a me è puramente emotivo. Mi piace fare ricerca, leggere interviste, amo proprio la cultura di certi generi, però riporto sempre tutto a una dimensione individuale e intima dell’ascolto».

 

Pensa alle nuove generazioni, cosa diresti alle persone che aspirano ad un percorso simile al tuo?

«Quello che è importante è trovare un tuo linguaggio. Deve essere frutto dell’unicità della tua persona, riflettersi in quello che fai e permetterti di trovare un tuo modo di esprimerti.

Invidio le nuove generazioni. Quando sono cresciuto c’era la pressione di doversi identificare con un genere musicale, tutto ciò che era commerciale era da combattere; oggi invece i ragazzini vedo che sono molto più aperti ed è un vantaggio.

Sarei voluto essere un adolescente oggi, con tutti i mezzi a portata di mano. Mi serviva un anno a capire quello per cui oggi sarebbe bastato un pomeriggio con un tutorial. I miei amici sono tutti sono concordi nel dirmi “ma che cazzo dici, quello che hai fatto tu ha un valore perché te lo sei sudato e studiato”. Eppure io resto convinto del fatto che sono progredito di più negli ultimi anni, proprio per la disponibilità di strumenti a nutrire il mio bisogno di conoscenza, di migliorarmi.

E quindi un consiglio alle nuove generazioni sarebbe: sfruttate le possibilità che avete a disposizione per studiare, imparare e migliorare, perché non è scontato».

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