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La “Forma Mentis” di Umberto Maria Giardini: “è la lentezza che dà la felicità”

02-07-2019

Di Beatrice Belletti
Foto di Beatrice Belletti

Abbiamo parlato davanti ad un caffè in una chiacchierata di due ore senza peli sulla lingua, piena di onestà scomoda, parolacce e degli “off-the-record” che non leggerete mai.

Umberto Maria Giardini, cantautore marchigiano e bolognese d’adozione, ha segnato i vent’anni di prolifica carriera con un nuovo album intitolato Forma Mentis, edito da AlaBianca e distribuito da Warner, che è uscito il 22 febbraio ed è stato preceduto dal singolo Pleiadi in un cielo perfetto a gennaio 2019.

Dagli esordi nel 1999 con il nome d’arte Moltheni pubblica otto album (inclusa un’edizione in vinile) e partecipa al Festival di Sanremo nel 2000, per poi passare alla parentesi strumentale di Pineda (2011). Firma numerose collaborazioni e produzioni, tra cui si annoverano nomi quali Franco Battiato e i Verdena. Nel 2012 si lascia alle spalle gli pseudonimi e prosegue la carriera artistica come Umg, affiancato dalla produzione di Antonio “Cooper” Cupertino, realizza quattro dischi con b-sides e versioni unplugged, incluso l’Ep Ognuno di noi è un po’ Anticristo. il 2017 è l’anno di Futuro Proximo che vede anche la genesi della band Stella Maris, a cui segue l’anno successivo la pubblicazione dell’omonimo album.

Sono anni dettati da rock crudo, ondate progressive, distintivo lirismo e una capacità melodica di ampio respiro, sempre marcata da immediatezza, sogno e nostalgia che caratterizzano da sempre il lavoro artistico di Umberto Maria Giardini.

Domani, 3 luglio, presenterà un set di chitarra e voce da Dynamo Off alla Velostazione Dynamo Bologna, un evento organizzato in collaborazione con La Fabbrica Live, all’interno della rassegna Vieni a Convivere, un appuntamento extra rispetto al tour.

Il suo ultimo sforzo artistico Forma Mentis vede anche il featuring di Adriano Viterbini nella title track. Un fatto curioso risiede proprio nel titolo, che risale agli inizi degli anni 2000, quando in cantiere c’era un progetto (ancora Moltheni) che non vide mai la luce, bruciato per vedere la nascita di Splendore Terrore. Quasi due decadi dopo la Forma Mentis (dal latino “la forma della mente”) risorge, ma attenzione, le tracce sono diverse, Umg ha mantenuto l’affezione verso la nomenclatura, portando la psichedelia di metà anni sessanta in ogni traccia del suo prodotto, con suoni nettamente induriti rispetto ai precedenti lavori.

Cosa rappresenta la tua Forma Mentis?

“Forma Mentis rappresenta l’essere di noi stessi. È una sorta di testamento, di dichiarazione che ho voluto dare a questo disco come avevo tentato di fare nel 2002. Questa cosa era rimasta lì come un pillola e invece che inghiottirla l’ho vomitata. Ho riscritto tutto da capo, poiché il prodotto non era più nelle mie corde. Quello che io sono è racchiuso nelle note di questo disco”.

Il lirismo molto personale e diretto è un tratto distintivo della tua scrittura, da dove viene?

“Sicuramente è vita vissuta, tutto nella mia vita ha influenzato la mia scrittura.

Mi ricordo tanto degli anni 70-80, in quell’epoca ho scoperto tutto, il sesso, il rock, il mondo del lavoro; mentre gli anni ’90 sono stati la mia vita, gli anni della Scozia, di Milano, la droga, tutte cose che si sono aggiunte in questo calderone. Quello che si sente nell’album oggi è il sapore del mio vissuto”.

Come vivi il processo di scrittura e quale rapporto hai con il prodotto finito?

“Nel processo di produzione ascolto molto il mio prodotto prima che esca, ma non dopo. Si susseguono poi tutti i ripensamenti e i pentimenti negli anni successivi, ma nel momento di scrivere qualcosa di nuovo non vengo influenzato da ciò che ho fatto prima. A volte lo vivo bene, altre volte meno bene; certe volte lo cancello.

Ad esempio, il mio trascorso di Moltheni non lo rinnego, ma è un ciclo volutamente chiuso, che fa parte del passato. Ho lasciato quando ero all’apice, per motivi di denaro; mi ero reso conto che il progetto era cresciuto talmente tanto che non ero capace di gestirne il discorso economico che mi destabilizzava.

Chi ha bisogno di tutto quell’accanimento verso la ricchezza? Molti, ma non io. Mi sono sempre preoccupato di fare le cose che mi piacciono e qualcuno ne ha riconosciuto il valore, non c’è bisogno di molto altro”.

Torniamo agli anni 90, erano anni in cui hai viaggiato molto e vissuto molto intensamente. Che esperienza ha avuto con le droghe?

“Pesante. Sono stato tossico ma non ero dipendente, ho guardato al di là dalla sponda e sono tornato indietro. Ho sempre avuto un carattere forte ed è cosi che ho sempre gestito tutto, dalla perdita dei miei genitori al lavoro. Oggi mi nutro e circondo di sobrietà, ed è quella a determinare la mia vita, anche artistica”.

Sembra quasi che gli abusi di stupefacenti siano un rito di passaggio per gli artisti, soprattutto legati alla psichedelia degli anni 60. Credi sia influenzato dalla società, dai tempi o dall’essere artista nel contesto musicale?

“Intanto bisogna sottolineare che non tutte le esperienze legate alla droga sono uguali. Il musicista medio non ci si avvicina nemmeno lontanamente ora, poiché l’eroina è passata di moda. La mia personale esperienza era legata a quegli anni, e mi ha influenzato marcatamente, tanto da cantarla anche nel brano Zona Monumentale.

Onestamente non mi pento di quello che ho fatto, non tanto perché ne ho goduto ma quanto perché ho conosciuto anche quell’aspetto della vita. La mia condizione era avvicinarmi alla musica in atteggiamento psichedelico, non depressivo”.

Riguardo l’influenza della società odierna sull’industria musicale, cosa pensi?

“In Italia vige la legge dei media. I talent show sono macchine per creare denaro e c’è gente che riesce a ingranare nel mercato solo per le visualizzazioni su YouTube e non per il brano; non dovrebbe essere così.

Il mercato è talmente spezzettato con significati secondari che non è più importante sapere suonare uno strumento, ciò che determina oggi il successo è la visibilità, la tv, la rete”.

Come hai vissuto il passaggio al digitale?

“Mi lascia indifferente, il mio prodotto esce anche in digitale da anni, ma non me ne occupo minimamente. Mentre il discorso prettamente visivo di grafiche mi interessa moltissimo, curo tutto personalmente, per i videoclip addirittura, da molti anni faccio io la direzione alla regia e lo storyboard”.

Hai mai subito pressioni sulla tua immagine?

“Chi lavora con me sa che non accetto compromessi, difficilmente sono una persona elastica, né mi faccio dire cosa devo fare. È una mia prerogativa, anche negativa, di dover avere il controllo di tutto.

È capitato in passato, con il primo album di Moltheni, che io abbia ricevuto uno schiaffo violento legato al management, alla produzione e alla distribuzione; sono stato così malamente consigliato che dopo la partecipazione al Festival di Sanremo ho detto basta. Il mondo legato alle major e dove girano molti soldi non faceva per me.

Negli Stati Uniti non te lo chiedono nemmeno come sarà la copertina, perché si dà per scontato che se ne occupi l’artista personalmente. Non c’è questa dittatura, questa imposizione dove io tiro fuori il denaro e decido come ti vesti tu. È semmai vero il contrario: tu tiri fuori il denaro perché ti piaccio come sono fatto, ti piaccio come personaggio”.

Permettimi di fare l’avvocato del diavolo: non pensi sia una sorta di lusso mantenere una propria identità per un artista consolidato rispetto ad un emergente che si deve lanciare nel mercato?

“Perché c’è crisi economica! L’emergente vive l’attualità e l’attualità è un mondo ricattatorio, ovunque. Chi è giovane oggi è sfigato, perché innanzitutto se c’è una produzione che lo accetta deve abbassare le orecchie e dire grazie.

Ai miei tempi non era così, non si era fatto il balzo nel vuoto siderale di mancanza di valori e morale. È stata la rete che ha determinato il cambiamento, tracciando una linea, poi il tempo ha decretato che tutti abbiamo fatto il balzo di là di quella linea. Chi l’ha vissuto e ha scavalcato se ne rende conto”.

Quali erano considerabili tempi migliori?

“L’epoca più bella la inquadro tra 1959 e il 1966 in America. Mi sarebbe piaciuto viverla perché in quegli anni la musica, oltre ad aprirti in due dal punto di vista culturale, se vissuta in mezzo all’esperienza psichedelica della droga, si assimilava di più; la sensazione è paragonabile all’ascoltare la musica in tridimensione, ti circonda”.

Nel tuo brano Pleiadi in un cielo perfetto dici: guardami, cosa vedi in me? Ti giro la domanda: guardati, cosa vedi in te?

“Vedo una persona molto più semplice di quello che un ascoltatore immagina. Vedo in me un musicista sempre in crescita; mi considero uno che ha ancora qualcosa da dire, forse neanche agli altri, ma a me stesso”.

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