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Quartieri, viaggio al centro delle periferie italiane. Nei fumetti di Mattia Moro c’è la Bolognina

17-04-2020

Di Luca Vanelli

Noi che diamo forma ai luoghi, con le nostre storie e i nostri linguaggi. I luoghi che danno una forma a noi, con i loro rumori, colori, suoni. Quanto ci plasmiamo a vicenda con i luoghi che abitiamo? Quanto li viviamo e li vediamo mutare nel tempo?

In Bolognina ci eravamo già stati per raccontare un luogo di creazione, il Checkpoint Charly. E proprio lì avevo incontrato per la prima volta Mattia Moro, fumettista abruzzese, residente nel quartiere da ormai dieci anni.

Mattia è uno dei narratori di Quartieri, viaggio al centro delle periferie italiane”, pubblicato da BeccoGiallo Editore, progetto nato da Adriano Cancellieri (IUAV – Venezia) e Giada Peterle (Università degli Studi di Padova), curatori del libro. Un’antologia di cinque storie che raccontano cinque quartieri di cinque città italiane, da Nord a Sud, da Milano a Palermo, per dare uno sguardo ad alcune delle più note periferie della penisola.

Bologna e la Bolognina prendono forma dall’analisi di Giuseppe Scandurra, riceratore e docente universitario, e dai fumetti di Mattia che abbiamo intervistato. Ci racconta com’è nato il progetto, come ha vissuto il quartiere in questi dieci lunghi anni e come sia riuscito a trovare un linguaggio comune che è penetrato nella sua pelle.

Com’è nata questa tua collaborazione?

“Sono stato coinvolto da Giuseppe Scandurra, ricercatore e docente di Antropologia a Ferrara. Aveva già scritto il testo sul quartiere della Bolognina. Avendo già collaborato in passato, ha pensato a me per questo progetto coinvolgendomi non solo come fumettista, ma anche perchéresident fisso del quartiere”.

Racconti la Bolognina, che ormai è la tua casa…

“Io sono arrivato dall’Abruzzo per studiare e in Bolognina ci sono capitato per caso. Poi, per scelta, ho deciso di rimanerci. Perché mi piaceva come quartiere. Ho assistito in prima persona a una serie di cambiamenti primo fra tutti quello della percezione dell’opinione pubblica. Si sono trasformate intere zone, aprendo tantissimi dibattiti su come sia avvenuta questa trasformazione”.

Com’è strutturata la storia?

“La storia, anche se breve, si struttura in tre parti. La prima racconta il passato operaio della Bolognina, un quartiere popolare fatto di metalmeccanici e ferrovieri.
La seconda affronta il tema dell’impronta multiculturale. Molte comunità differenti convivono e intrecciano le loro storie. Per raccontarle ho scelto di far giocare una partita a basket ai due protagonisti nel centro geografico del quartiere: Piazza dell’Unità.
Nell’ultima parte cerco di pormi alcune domande, di dare una mia lettura personale e di capire dove sta andando il quartiere: come viene percepito? Che cosa riserva il futuro?”.

“Questo quartiere è una poesia scritta male, recitata peggio e in attesa di traduzione”. Spiegami meglio questo tuo riassunto della Bolognina..

“Scritta male perché, a differenza di altri quartieri che sono nati più spontaneamente, la Bolognina nasce da un progetto urbanistico preciso che prevedeva una pianificazione degli spazi dettagliata: vie commerciali, zone manifatturiere, luoghi di incontro sociale. Il piano, come spesso accade, non è stato portato a compimento e quindi nel tempo una parte di quartiere è cresciuta da sé andando a mescolare tutto”.

Recitata peggio perché nessuno è mai riuscito a dare una lettura complessiva della Bolognina, che è quindi sempre stato visto dall’esterno come un luogo degradato, sporco, pericoloso.

In attesa di traduzione perché stiamo ancora cercando di capire che cos’è e dove sta andando, perché ci sono tante forze all’interno che lo modellano. Le domande sorgono spontanee: rigenerazione urbana o speculazione edilizia? Distretto culturale o gentrificazione? Tante direzioni sono ancora possibili”.

Un fumetto come questo può aiutare a dare una lettura differente della Bolognina?

“Penso sia complicato, ma che valga il tentativo. L’impatto interpretativo può esserci, soprattutto verso chi magari non conosce bene il quartiere e leggendo alcune pagine, sentendo una presentazione o un’intervista, magari aggiunge alla sua percezione altre informazioni”.

Qual è l’obiettivo di questo fumetto?

Più che dare una direzione, ho cercato di fissare la posizione in cui ci troviamo. Non essendo un fine commentatore urbanistico e politico, forse non sono la persone più adatta ad indicare direzioni. Non so cosa succederà, però so che adesso siamo qui. Come faccio a saperlo? Lo so perché ci vivo, vedo e incontro persone, ci lavoro”.

C’è qualcosa che hai trovato in questo quartiere che non hai trovato da nessun’altra parte?

“Quello che noto è che molti rivendicano la Bolognina come la loro casa, il loro posto. Penso che lo facciano in maniera inconsapevole, come una sorta di sentimento istintivo. Il quartiere, anche per la sua conformazione, ti porta a pensarlo come un ambiente delimitato, preciso, riconoscibile e diverso dagli altri.

Qualche anno fa mi è capitato di fare un laboratorio con alcuni ragazzini delle medie, in cui gli si chiedeva di descrivere il quartiere. Uscirono moltissimi elementi in comune nonostante le persone avessero provenienze sociali ed etniche molto diverse. Venne fuori l’immagine di un quartiere con una propria unità visiva e uditiva. Mi spiego meglio: la componente uditiva è legata al forte rumore che dà la sensazione di essere in una grande metropoli, lontano dall’idea di quartiere bucolico. L’unità visiva invece si coglie in alcuni elementi ricorrenti, dovuta alla pianificazione urbanistica ben precisa che, nonostante si sia persa per strada, ha lasciato tracce ben visibili come le vecchie case popolari. Una sorta di scheletro su cui si è costruito il quartiere che c’è adesso”.

È come se esistesse un linguaggio misterioso e comune  che ti entra sotto la pelle…

“È così ed è una cosa che puoi assimilare solo se ci vivi. Ho iniziato a capirlo osservandolo: qui è normalissimo vedere quattro persone camminare vicine sul ciglio della strada provenienti da quattro luoghi del mondo completamente diversi.

C’è una specie di segreto di quartiere. Una grammatica comune, fatta di suoni, rumori, colori e immagini che ti  porta ad un’identificazione. Poi senti parte di quel mondo solo per il fatto che lo vedi ogni giorno e diventa tuo, diventa parte della tua identità”.

Questo libro penso possa rientrare nella categoria del “Graphic Journalism”. Quali potenzialità può avere oggi un genere di questo tipo? Può raccontare la complessità?

“Penso serva una certa cautela con il graphic journalism, soprattutto per non dare l’impressione di una eccessiva semplificazione. Il fumetto ti dà la possibilità di giocare con i suoi diversi livelli: l’immagine, il testo e il terzo livello che è l’unione fra i primi due.

Quando fai concordare o discordare le immagini con le parole che ci metti accanto, crei un terzo livello: questa è una frontiera di complessità. È il modo con cui puoi aggiungere valore e con cui puoi, semplificando il linguaggio, arrivare a portare avanti discorsi più complessi”.

Hai dei punti di riferimento in questo mondo?

“Questa è sempre una domanda spinosa, perché non ne ho di precisi. Ho studiato in Accademia con Gianluca Costantini, che utilizza il fumetto come strumento di denuncia. La mia grammatica arriva da lì.

Poi ho sviluppato un approccio più narrativo che lascia spazio al lettore. Ti posso citare Jose Sacco, Marjane Satrapi o Guy Delisle. Loro scrivono storie che parlano di avvenimenti reali, visti da un punto di vista preciso e portati avanti con un’impostazione molto narrativa. Preferisco quindi costruire una storia  che porti il lettore a quello che voglio dire e questo è un ulteriore livello di complessità. E lo metto io”.

Stai lavorando a qualcosa ora?

“Ora sto lavorando su alcune storie di finzione, in cui ci sono comunque molti legami con la realtà. La mia prima àncora è sempre la realtà: non sono uno scrittore fantasy, non racconto cose completamente inventate. Tutto quello che scrivo è influenzato da quello che succede intorno a me, quello che capisco, quello che vedo e sento.

Normalmente vado in giro come una spugna: ascolto, assorbo, raccolgo elementi. Ad un certo punto esce qualcosa che è un collage di ciò che mi accade e a cui cerco di dare un senso. Anche se ora volessi lavorare su storie di finzione, la realtà mi entra comunque dalla finestra”.

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