Quante volte ci siamo sentiti dire che un libro è come un viaggio? E quante volte che un linguaggio non è solo un insieme di parole ma un sistema di relazioni?
Parlando de L’Albertazzi, ovvero di un “dizionario e grammatica di slang bolognese nella sua variante dialettale Albertazzi” (citando quello doveva essere inizialmente il titolo), le definizioni date poc’anzi si applicano benissimo, ma cosa succede ad applicarle alla lettera?
Che ne nasce un’intervista itinerante all’autore, Francesco Perlini, attraverso le parole e i luoghi ad esse associate: un vero e proprio viaggio nel libro e nei luoghi di Bologna che lo hanno ispirato.
Domenica 10 dicembre, alle 17.30, sarà presentato in occasione della terza edizione di Kartematte – Incontro informale di espressioni cartacee a Camere D’Aria, via Guelfa 40/4.
Con Francesco ci incontriamo lì dove tutto ha avuto inizio, al Liceo Fermi – che per amor di privacy non viene mai citato nel libro, ma la cui copertura è saltata in breve tempo. Qui, un gruppo di amici (v. alla voce balotta) soliti ritrovarsi in via Albertazzi, da cui il nome della balotta e successivamente del libro, ha iniziato per gioco a storpiare termini dello slang bolognese.
Attenzione: parliamo di slang, non di dialetto, e dunque…
Quali sono i punti di contatto tra slang e dialetto bolognese?
«Molto pochi. Ci sono termini dello slang che provengono dal dialetto, ma la maggior parte di loro no e non sempre è dato sapere da dove provengano. Si tratta a volte di fenomeni privati, che nascono in seno a gruppi anche piccoli».
Viene subito in mente la cultura hip hop, dove lo slang ha un forte carattere identificativo: il gruppo è definito da termini che si intrecciano alla cultura, alle attività e allo stile di vita di quel gruppo specifico. Ti ritrovi in questa definizione?
«Assolutamente: inventare parole funge da collante sociale, serve ad “abbassare i toni” rendendo l’atmosfera più tranquilla. Ci si sente parte di qualcosa attraverso uno strumento come un altro che è la lingua che però, per il tipo di animali che siamo, utilizziamo tutti i giorni. Il richiamo all’hip hop è assolutamente pertinente, perché a rendere lo slang bolognese famoso e allo stesso tempo ad arricchirlo di nuovi termini sono stati soprattutto gruppi come i Sangue Misto che, come suggerisce il nome, non sono di origine bolognese; un altro esempio potrebbe essere Pazienza. Lo slang dunque si basa sulla contaminazione portata da chi di un certo gruppo entra a far parte».
E dunque, che termini posso trovare ne L’Albertazzi?
«I termini più famosi del dialetto – il tiro, la balotta, il cinno, ecc. – ce li trovi, ma ci sono anche termini di slang più di nicchia, qualche termine più “esotico” entrato nel dizionario con alcune conoscenze fatte all’università, e infine parole inventate da noi Albertazzi, quindi usati da massimo 4 o 5 persone; nel dizionario c’è una sigla che serve proprio ad identificare il raggio di diffusione».
Nel frattempo ci mettiamo a sfogliare il dizionario con Francesco, prendendo confidenza non tanto con i termini quanto con l’oggetto-dizionario, la sua struttura, la sua veste grafica.
Francesco ci spiega come la gran parte dei lemmi siano definiti attraverso altri lemmi, creando un gioco ipertestuale che sbalza il lettore da una parte all’altra del dizionario azzerando ogni linearità nella lettura. La grafica è invece a cura di Chialab, con illustrazioni di Lufo e Valeria Cavallone: pochi tratti per mettere in chiaro che L’Albertazzi non è esattamente il dizionario che ci si aspetta.
Abbiamo a questo punto raggiunto la seconda tappa: la Lunetta (il giardino Lunetta Gamberini), così definito ne L’Albertazzi: «luogo di ritrovo del Mazz. A essa è dedicato il nome della crew hip-hop LBZ”. Esempio: “Son passata in L. per una bella ed è partito lo festiollo».
Ebbene sì, i termini sottolineati sono definiti altrove ne L’Albertazzi; saltiamo dunque a LBZ: Sigla dei “Lunetta Boyz”, crew simbolo dell’hip-hop nel Mazz, che la domina ai grigli del liceo Albertazzi e sulle casse di numerosi regaz.
«I Lunetta Boyz facevano hip hop negli anni ‘10» ci racconta Francesco, «erano una leggenda di quartiere: trovavi i loro stickers ovunque. Ogni due mesi circa poi, al liceo organizzavamo una grigliata (v. alla voce grigli) e spesso e volentieri c’erano dei concerti e chi erano gli invitati? Naturalmente i Lunetta Bozy!».
Mentre sostiamo sulle panchine della Lunetta, alle vicende della LBZ Francesco aggiunge un paio di aneddoti sparsi tra le pagine dell’Albertazzi. A questo punto al lettore sarà chiaro che ciò che va a delinearsi di definizione in definizione è una vera e propria narrativa, tanto personale quanto cittadina:
Ne l’Albertazzi mi sembra chiara la tua volontà di “forzare” la forma-dizionario per renderla narrativa, una sorta di raccolta di frammenti della Bologna dei primi anni zero. Come mai questa scelta?
«Inizialmente volevo fare semplicemente un elenco di parole che non volevo dimenticare, poi pian pianino si sono aggiunte delle definizioni. Ma come dizionario non aveva tutti i crismi del classico dizionario e allora ho iniziato a raccontarci pezzi di storie. Considera che nasce come una fanzine che stampavo per gli amici e la cosa divertente era che loro potessero rileggersi tra le righe di questa “mitologia privata” a cui loro stessi appartenevano. Quando è diventato un libro ho inserito termini più istituzionali, ma trovo interessante che siano sullo stesso piano di termini estremamente privati».
Parlando, arriviamo ad un’altra tappa dall’inestimabile valore simbolico: via Albertazzi. Ovvia photo opportunity accompagnata dai racconti dei pomeriggi e delle serate trascorsi qui da Francesco, a casa del Doppler. Lui, così come il resto della sua famiglia (incluso il cane Frope, peraltro anche oggetto di illustrazione) sono inevitabilmente tra i personaggi-definizioni del dizionario.
Proseguendo l’intervista-passeggiata chiediamo a Francesco, data la natura peculiare de L’Albertazzi, che tipo di lettore si immagini.
«Beh, sicuramente gli amici degli amici degli amici (scherza). Ma in effetti metterci dentro alcuni amici è stata una mossa di marketing completamente involontaria ma superefficace, perché loro, felici di essere nel libro, ne hanno parlato a loro volta a loro amici anche molto lontani dal contesto del libro, ma che si sono interessati.
Capisco che il carattere “privato” possa sembrare una soglia di sbarramento, ma la maggioranza delle definizioni tentano di raccontare frammenti di Bologna, e questi possono essere goduti anche da chi viene da fuori. Ti faccio un esempio, “Jack Frusciante” è un libro molto bolognese, ma è stato apprezzato anche fuori da qui perché parla di cose in cui ti puoi immedesimare anche se non sei cresciuto a Bologna.
E poi magari può esserci il turista che “confuso” da questo oggetto difficile da incasellare lo prende a mo’ di souvenir invece del solito portachiavi a forma di tortellino!».
Parli giustamente del turista… Entrando in libreria in effetti non mancano i libri per turisti a tema Bologna, sulla cucina, sul folklore, eccetera. Un classico dizionario di bolognese potrebbe tranquillamente rientrare tra questi, mentre l’Albertazzi per le ragioni di cui abbiamo parlato, si discosta nettamente da quel tipo di modello. Dove si colloca dunque?
«Tra i dizionari di bolognese ci sono due precedenti importanti: uno di Fernando Pellerano, pubblicato dal mio stesso autore in cui si racconta un’altra generazione di slang, quella della scena urbana degli anni ‘80, periodo probabilmente anche più scoppiettante di quello presente da un punto di vista culturale. Sul fronte opposto c’è il libro di “Succede solo a Bologna” dove trovi parole di slang bolognese con la traduzione sia in italiano che in inglese, con alcune illustrazioni. È una specie di Atlante illustrato probabilmente più pensato come regalino del turista, senza una narrativa presente invece in Pellerano: il suo libro è discorsivo, scorre bene ma è molto meno strutturato da un punto di vista grafico. L’Albertazzi si muove tra questi estremi».
Spazialmente superiamo i Giardini Margherita (i Gardens) e arriviamo di fronte all’ex sede di Làbas. Da L’Albertazzi: “ex spazio occupato in via Orfeo a Bologna, poi sgomberato e trasferito in Vicolo Bolognetti in versione autorizzata”. Esempio: “Sono al L. griccio, quello ghiotto non c’è più”.
«“Ghiotto” e “griccio” sono termini antitetici, il primo vuol dire figo, il secondo scrauso. Ovviamente questo (riferendosi a quello dove ci troviamo) era quello ghiotto.
Avere spazi occupati radicati nel centro storico è qualcosa che ormai non c’è più; il Làbas era l’ultimo avamposto. Il loro punto di forza, che gli ha permesso di resistere così tanto in una zona così centrale, era il loro temperamento polleggiato, anche sul fronte politico, non erano per esempio incazzati come gli anarchici di XM (altro storico centro sociale bolognese). Qui in via Orfeo erano riusciti a creare una situazione in cui cultura alternativa e disobbedienza erano in armonia con il quartiere e le famiglie che lo abitavano».
Visto che rientra tra i lemmi del dizionario, puoi dirci qualche parola in più anche su XM?
«XM24 è un centro sociale molto importante, sgombrato nel 2019. XM era anarchico e attivo in tutta Europa, se non ricordo male dagli anni ‘80; negli anni era diventato una città nella città, perché raramente le iniziative di XM avvenivano fuori, ed era un posto incredibile.
Ne L’Albertazzi faccio riferimento anche al “pezzato XM” realizzato da Blu (street artist di fama internazionale, ndr). “Pezzato” in bolognese ha vari significati, uno di questi è graffito, “il pezzo” appunto. L’opera di Blu è sbalorditiva, una specie di Cappella Sistina della street art che ti invito a googlare, perché se la andassimo a cercare oggi non la troveremmo più dopo che, per volere dello stesso Blu, è stata interamente ricoperta di grigio. Tirava aria che dei privati volessero staccare l’opera dal muro per esporla privatamente e allora Blu, pur non sicuro che ciò si sarebbe effettivamente fatto, ha incaricato dei suoi affiliati di coprire – è successo nel giro di una mattinata – tutte le sue opere a Bologna».
Mentre parliamo di Blu siamo davanti ad un altro capolavoro di street art bolognese: la maxi opera di NemO’s, altro celeberrimo muralista, che si trova appunto sui muri dell’ex Làbas. Per gli appassionati di street art si tratta di una sosta imperdibile.
Riprendiamo il nostro itinerario per le vie del centro, toccando altri luoghi-definizioni come Màuri e il Lurido (noti luoghi di ritrovo universitari del centro storico), spulciando con Francesco L’Albertazzi per commentare le definizioni e le illustrazioni loro dedicate.
E poi, piazza Aldrovandi (a.k.a. Aldrovànza o Aldro), Piazza Verdi (Plaza Green) e via Petroni, tutti luoghi ricchissimi di aneddoti e personaggi, dall’economia parallela dei “birabìra” alle poesie sensuali e incomprensibili de “la Contròlla”, tutti catturati da Francesco nel dizionario.
Infine, ormai con qualche chilometro alle spalle, puntiamo verso la tappa finale e avvicinandosi la fine dell’intervista cerchiamo di tirare le somme su L’Albertazzi:
In definitiva, quella che tu tratteggi è una microlingua che va in opposizione alla tendenza globale verso una lingua franca, che è ovviamente l’inglese. Qual è la tua posizione rispetto alla crescente anglicizzazione? E che ruolo gioca L’Albertazzi in questo?
«Non sono uno di quelli che porta avanti la battaglia contro l’anglicizzazione, anzi, io sono il primo ad aprirmi verso gli anglicismi e non mi preoccupa l’impoverimento dell’italiano perché così come ci sono termini che se ne vanno ce ne sono altrettanti che vi si aggiungono, alcuni di questi poi sono concetti intraducibili in italiano e che quindi dobbiamo prendere dalla lingua di origine. La lingua cambia come è sempre cambiata!
Nel caso specifico, il dizionario risente molto dell’anglicizzazione, ma lo trovo un elemento positivo perché da una parte possiamo espandere la lingua con nuovi concetti, dall’altra possiamo prendere anche solo delle assonanze e distorcere la nostra lingua creando uno slang locale che, di fatto, è un fenomeno opposto all’appiattimento della lingua».
Non posso fare a meno di chiedertelo: ma nel quotidiano, parli davvero lo slang Albertazzi?
«Pensa che è la prima volta che mi fanno questa domanda! Alcuni di questi termini li utilizzo, ma mentirei se dicessi di parlare in slang nel quotidiano. Come dicevamo, la lingua cambia nel tempo e anche l’uso che ne facciamo cambia. Questo slang è legato all’adolescenza, utilizzarlo è anche un omaggio al passato e un viaggio nella memoria di quegli anni della mia vita quindi sì, capita di usarlo ma lo faccio soprattutto per recuperare e per connotare meglio ricordi o racconti di un periodo preciso».
La conversazione ci ha portati fino a Piazza Maggiore, per gli amici Plaza Maiora. Da L’Albertazzi apprendiamo che viene erroneamente confusa con la Piazza Grande cantata da Dalla, riferita invece a Piazza Cavour.
Sediamo sul crescentone (la pavimentazione che caratterizza la piazza) per qualche altro spezzone di storia locale preso qua e là da L’Albertazzi (al quale eventualmente vi rimandiamo), a sottolineare ancora una volta il carattere narrativo del dizionario e che lo rende, nell’opinione di chi scrive, uno strumento interessante e lontano dal mainstream per entrare in contatto con il vissuto di Bologna, sia il lettore un resident o meno.
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