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Almeno per ora: il nuovo capitolo degli Elephant Brain

14-11-2025

Di Redazione

C’è qualcosa di istintivo, quasi viscerale, nella musica degli Elephant Brain. Un’urgenza che si avverte fin dai primi accordi e che continua a crescere, disco dopo disco, come se ogni brano fosse una tappa di un percorso di scoperta — o di sopravvivenza — dentro sé stessi.

Nati a Perugia nel 2015, Vincenzo Garofalo, Andrea Mancini, Emilio Balducci, Roberto Duca e Giacomo Ricci hanno costruito negli anni un suono riconoscibile e sincero, capace di muoversi tra rabbia e malinconia, fragilità e potenza, con quella naturalezza che appartiene solo a chi non ha paura di mostrarsi per quello che è.

Dopo l’esordio con Niente di speciale (2020) e la conferma con Canzoni da odiare (2022), il nuovo album Almeno per ora (pubblicato per Woodworm Label) segna un’evoluzione importante: un lavoro più maturo, a tratti più cupo, che racconta la crescita di una band ormai pienamente consapevole della propria identità. Un ritorno che suona come una presa di posizione — quella di chi sceglie di rimettersi in gioco, ancora una volta, senza compromessi.

Elephant Brain, foto di Matteo Bosonetto

Dopo un’estate trascorsa tra festival e palchi in tutta Italia, gli Elephant Brain tornano ora nella dimensione che più li rappresenta: quella dei club. Da novembre parte infatti l’Almeno per ora – Club Tour, che attraverserà il paese fino al 2026 e farà tappa anche a Bologna, sabato 22 novembre al Locomotiv Club (biglietti dispobili qui) – occasione perfetta per ritrovare (o scoprire) l’energia cruda e l’intensità di una band che dal vivo riesce sempre a superarsi.

Abbiamo raggiunto Vincenzo alla vigilia del nuovo tour per parlare di crescita, cambiamenti e di quel bisogno di fare musica che, almeno per ora, non li ha mai abbandonati.

Partiamo dall’inizio: come nasce Almeno per ora? Qual è stata la sua genesi e come si è sviluppato il processo di creazione del disco?

I primi pezzi, Sto meglio e Una casa in cui tornare, sono usciti nel 2024 e inizialmente dovevano essere singoli indipendenti — infatti li abbiamo poi raccolti in un 45 giri. In realtà non ragioniamo mai sul disco come un progetto già finito: partiamo sempre dai singoli brani. Se una canzone ci suona bene, la portiamo avanti; se no, si passa oltre.
Ci sono stati due anni di ascolti e di ricerca. Alla fine ci rendiamo conto che, nel corso del tempo, ci fissiamo sempre con due o tre dischi in particolare — quelli che ascoltiamo di più, che diventano quasi parte di noi. Ti capita di pensare: “Cavolo, una roba del genere mi piacerebbe inserirla in un nostro pezzo”. E da lì comincia un po’ tutto.

Queste sonorità ci piacevano, e quando arrivi a un punto in cui ti senti abbastanza soddisfatto — tra quello che hai ascoltato e quello che hai scritto — capisci di aver trovato un equilibrio. Ti dici: “Ok, ciò che mi ha ispirato in quest’ultimo periodo è riuscito a entrare, in qualche modo, nel nostro stile”. E allora sei contento, chiudi così.

Dal punto di vista degli arrangiamenti, abbiamo sperimentato di più: per esempio, in un brano che era nato tutto con la chitarra, Jacopo Gigliotti il nostro produttore ha proposto di provare una versione al pianoforte. Così il Ghianda l’ha registrata da casa e ci ha mandato la traccia. Quando l’abbiamo inserita nel progetto ci è subito piaciuta: funzionava meglio, dava respiro al pezzo. Non volevamo restare sempre legati al suono delle chitarre — rischia di diventare troppo “chitarroso” — quindi abbiamo alleggerito un po’. Anche Almeno per ora nasce da questo approccio: un brano più lento, quasi una ballad, dove ci siamo concessi di fare quello che ci andava, anche uscire dalla comfort zone. Poi certo, ci sono i pezzi più riconoscibili, quelli che portano il nostro marchio di fabbrica.

“Impareremo a perdere” non è solo una traccia del disco, ma quasi un filo conduttore che attraversa tutti i pezzi.
L’album sembra raccontare il modo in cui ci si confronta con l’assenza, con le difficoltà emotive che ne derivano, ma anche con la necessità di accettarle. Eppure, nell’ultimo brano — Almeno per ora — la perdita sembra quasi qualcosa di ricercato, perfino desiderato: “Io volevo solo un’altra storia che fallisse”.

C’è quindi un rovesciamento: per tutto il disco si cerca di allontanare il fallimento, ma alla fine lo si accoglie, come se fosse inevitabile — o forse persino necessario.
Secondo voi, questo disco appartiene più al filone della perdita come opportunità di crescita, o come sconfitta con cui imparare a convivere?

Ci sono pezzi in cui la perdita è una sconfitta vera e propria: devi accollartela, conviverci, accettarla per quello che è. A volte diventa crescita personale — quel “ok, è successo questo perché doveva succedere, perché potesse succedere qualcos’altro. Ci siamo persi solo per andare avanti”.
In altri brani, invece, cantiamo di una perdita che non vogliamo che avvenga. Noi, ad esempio, non vorremmo mai perderci fra di noi. Siamo sempre i cinque amici, i cinque stronzi che il sabato prendono il furgone per andare a suonare, nonostante tutto: nonostante i casini del lavoro, i problemi personali, la fatica.
C’è sempre la paura che questo sogno del rock’n’roll — prendere il furgone, suonare, vedersi due o tre volte a settimana — possa finire. E allora raccontarlo e cantarlo serve anche a ricordarcelo: a dirci “ragà, ci siamo ancora, lo facciamo perché ci crediamo, perché siamo carichi nel farlo”. Ci piace sempre ribadirlo, anche se in modo diverso rispetto al primo disco: parliamo sempre di ciò che ci circonda, ma da prospettive che cambiano con noi.

E poi, sì, il filone nasce anche da tutto quello che stavamo vivendo nel momento di scrittura del disco: i cambiamenti a livello personale e strutturale, il passaggio da una dimensione do it yourself a un’etichetta, e poi il diventare adulti. È inevitabile che questo influisca. A 25 anni dire “continuo a suonare e lavoro” è una cosa, ma farlo a 32 è diverso: ti ritrovi ancora a dire al tuo capo che devi prendere la chitarra e andare a suonare. E allora capisci davvero che sei cresciuto, a tutti gli effetti.

Elephant Brain, foto di Matteo Bosonetto

Sembra un disco molto catartico, come se vi avesse aiutato a esorcizzare qualcosa e, allo stesso tempo, vi avesse portato a nuove consapevolezze. Il risultato è più una forma di rassegnazione o di accettazione di sé e della realtà?

Consapevolezza, assolutamente. Non ci siamo mai davvero rassegnati: è più una consapevolezza di ciò che sei e di dove sei arrivato. Siamo sempre carichi, e anche solo vedere la gente sotto al palco, o ricevere lo screen di qualcuno che ha appena comprato il vinile… per noi sono traguardi enormi. Sono momenti in cui ci diciamo: “Madonna ragazzi, ma vi rendete conto?” — perché a volte nemmeno noi ci crediamo davvero.

Guardandovi indietro: da Niente di speciale a oggi, vi sentite di aver creato qualcosa di speciale? Come sono cresciuti gli Elephant Brain lungo questo percorso?

Niente di speciale, in realtà, ha creato un sacco di cose speciali. Già solo pensare che quel disco è uscito e, dopo un mese, è arrivata una pandemia mondiale… è tanto. È stato un anno chiusi in casa, eppure la gente ha continuato ad ascoltarlo. Quando siamo tornati a suonare, dopo tutto quel tempo, venivano ai concerti e ci dicevano: “Raga, io questo disco me lo sono ascoltato per un anno intero, siete dei grandi, mi sono fatto 150 km per vedervi”.
Ecco, quella roba lì ci ha sempre riempito d’orgoglio. Ne siamo grati, davvero: i fan sono le persone a cui vogliamo più bene in assoluto.

Il percorso degli Elephant Brain è stato un percorso di crescita. Forse oggi abbiamo più consapevolezza di quello che facciamo, siamo più sicuri, ma restiamo fedeli a una cosa: facciamo ciò che ci piace, senza troppi calcoli. Se ci va di togliere una chitarra e mettere un pianoforte, lo facciamo. Non stiamo lì a chiederci se “sarà troppo” o “non abbastanza”.

Per noi, il disco avrebbe anche potuto aspettare ancora un po’, ma c’è sempre quel rischio di entrare in un loop — di rimandare all’infinito, pensando di poterlo migliorare all’infinito. A un certo punto capisci che la crescita avviene step by step, che è tutto un processo.
Siamo cresciuti anche a livello professionale, con i ragazzi che vengono in tour con noi, e ci ha fatto un sacco piacere che tanta gente abbia notato questa evoluzione e ce l’abbia detto. C’è sempre un po’ di timore — non paura, ma rispetto per quello che fai — perché noi riascoltiamo sempre ciò che produciamo, e vogliamo esserne convinti fino in fondo. Ma siamo felici che il pubblico abbia colto il mood del disco, anche quell’aura un po’ più cupa che lo attraversa. 

Elephant Brain live al Locomotiv 2024, foto di Davide Esposito

Elephant Brain live al Locomotiv 2024, foto di Davide Esposito

Ormai a Bologna siete di casa: tornate per la terza volta al Locomotiv. C’è un ricordo o un momento particolare che vi lega a questa città?

Bologna è sempre una delle città più belle in cui suonare.
A parte il primo sold out della nostra storia — che è stato al Covo — poi lo abbiamo rifatto al Locomotiv. È una città che ci ha sempre voluto bene, che ci ha accolto, e per questo siamo davvero grati.

Il ricordo più bello? Probabilmente il Locomotiv del tour di Canzoni da odiare: quella sera il sold out si è fatto in serata, non era partito prima, ed è stato incredibile. La seconda volta invece lo abbiamo annunciato in anticipo, con gli ultimi biglietti venduti direttamente alla cassa — anche quello un momento pazzesco.

Il giorno dopo siamo andati a mangiare i tortellini a casa di un nostro amico bolognese: una tortellata in brodo fino alle 4 o 5 del pomeriggio, e poi siamo tornati a Perugia con la pancia piena e il cuore pure.

E poi c’è il Locomotiv, che è un posto speciale. La prima volta che ci siamo suonati Jacopo dei Fask ci aveva detto: “Ragazzi, il Locomotiv è una bomba”. E aveva ragione. Era pieno, un caldo assurdo, le pareti sudavano — ma ci siamo divertiti tantissimo.

Poi quel locale ha qualcosa di speciale: è diverso dagli altri club. Ha un’atmosfera più intima, quasi tra amici. Non ci sono transenne davanti al palco, il contatto con il pubblico è diretto. È una cosa che ti resta dentro.

Elephant Brain live al Locomotiv 2024, foto di Davide Esposito