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Amazonas. Una fotografa e una violinista per due settimane nella foresta amazzonica

03-09-2020

Di Laura Bessega
Foto di Elisabetta Zavoli

Immaginate di essere miopi. Immaginate di non vedere il verde dei prati e delle foglie ma solo un paio di colori. Immaginate di avere una visione più ampia, grandangolare e che le vostre prospettive cambino completamente. La corteccia di un albero diventa un’autostrada. Un lago è grande come l’oceano.

Tranquilli, non avete abusato di sostanze stupefacenti e non siete diventati degli alieni, vi siete solo messi nei panni degli insetti.

È quello che hanno fatto Elisabetta Zavoli, fotografa, laureata in scienze ambientali e master in fotogiornalismo a Contrasto, e Sara Michieletto, violino primo nell’orchestra del Teatro la Fenice.

Il loro lavoro, In-sectum, è nato all’interno di una residenza artistica nella riserva Adolfo Ducke, nei dintorni di Manahus, nella foresta amazzonica brasiliana. Lo scopo, all’interno del più ampio progetto Amazonas, è mettere in diretto contatto artisti e scienziati per colmare quel divario tra il mondo accademico e la gente, per riavvicinare le persone attraverso le note sensibili dell’arte ai temi ambientali.

Un lavoro complesso, tra musica, suoni, fotografie e video installazioni. Sarà presentato il 10 settembre alle 21,30 a Le Serre dei Giardini Margherita, nell’ambito del festival Resilienze. Alle 22,30 ci sarà la performance musicale di Sara Michieletto.

Le incontro su Skype, com’è buona abitudine di questi tempi. Sono spigliate e sorridenti. Sembrano due amiche di vecchia data. Chiedo loro come si sono conosciute. Elisabetta dice alla collega: “raccontala tu che sei più simpatica di me”. Sparisce l’audio. Altra buona abitudine di questi tempi. Poco dopo riappare Sara. “Ci siamo conosciute a Giacarta perché sono andata a suonare al suo compleanno. Mi ha contattato suo marito per farle una sorpresa. Le ho suonato un bellissimo preludio di Bach”.

Come inizio non è male.

In Indonesia, Sara stava lavorando nel campo del sociale, Elisabetta sulla deforestazione delle mangrovie e sull’inquinamento da mercurio. “Le ho fatto una testa così – mi confessa, alzando le mani all’altezza del capo e ridendo – Questi non sono temi per appassionati di ambiente. Sono aspetti che toccano tutti”.

La prima collaborazione è sui ragazzi di strada in un orfanotrofio. Poi lavorano insieme per Emotion for Change, un progetto musicale nato nel 2015 e basato su un’idea di Sara Michieletto, che raccoglie numerosi artisti preoccupati per l’equilibrio ambientale del Pianeta.

La scorsa estate partono per l’Amazzonia. Si muovono tra la terraferma e il Rio Negro. Lì vicino la natura ha creato una lunga linea che per alcuni chilometri divide le acque blu da quelle marroni. È l’incontro col Rio delle Amazzoni. Uno spettacolo.

Per due settimane vivono dentro la foresta primaria e la riserva idrica più grandi del mondo, un ecosistema unico che racchiude il nostro futuro. Ogni giorno si confrontano con scienziati, forestologi, entomologi, dendrocronologi…chi? Me lo sono chiesta anch’io. Sono quelle persone che studiano gli anelli degli alberi e scoprono un sacco di cose interessanti.

Con questa incredibile ricchezza di specie animali e vegetali, piante carnivore, piranha, puma, i simpatici orsi dagli occhiali, e un’infinità di specie diverse di scimmie, farfalle, pesci, alberi e fiori, chiedo loro: ma perchè gli insetti? A noi suscitano per lo più fastidio, paura, ribrezzo. Le vespe pungono, le farfalline ti costringono a svuotare armadi e dispense, le cimici con il loro volare lento e disordinato che le porta a sbattere da tutte le parti sembrano un aereo costruito male, delle zanzare neanche sfioriamo l’argomento.

“Perché da un pò di anni sono usciti molti articoli sugli insetti, tutti terribili, e ci siamo chieste cosa potevamo fare. Leggendo uno di questi era stato evidenziato un grosso calo del loro numero. Ci ha profondamente colpito la risposta di un entomologo a una domanda che gli è stata posta. Chiedevano quale potesse essere l’effetto macroscopicamente più evidente per questo drastico crollo degli insetti. Lui ha risposto: un mondo privo di suoni“.

Questi piccoli, ma in Amazzonia neanche troppo, esserini sono alla base della catena trofica. Sono il pasto preferito di rettili, anfibi, uccelli e anche di alcuni mammiferi. Sono parte di una catena. E se una popolazione cala, calano anche le altre e la foresta resta muta. Un’apocalisse silenziosa, sembra quasi una contraddizione. Sicuramente in contrasto col termine usato da Sara per descrivere la foresta: una sinfonia liquida della vita.

Prova a spiegarmi. “È la sensazione che ho provato che mi ha fatto pensare a queste parole. C’era tantissima umidità, ero circondata dall’acqua e da un continuo alternarsi di suoni. È il contrappunto, una tecnica compositiva, lo scorrere di due linee melodiche che competono e si completano a vicenda. Ciò che accade in natura. Nella foresta non erano i suoni a farmi paura, trovavo moltissime analogie con la musica. Era il silenzio che mi inquietava”.

Ed Elisabetta aggiunge: quando entri nella foresta ti aspetti di vedere un sacco di animali passarti davanti. In realtà non vedi niente ma senti tutto. Percepisci solo le loro voci”.

Il primo concerto che Sara fa dopo la quarantena è la Sinfonia 40 di Mozart. Mi dice di non prenderla per pazza, ma quello che ci ha sentito dentro mentre la suonava era l’Amazzonia, il canto degli uccellini, lo scricchiolare del legno, quell’alternarsi di suoni timbri e melodie che competono e si completano, per l’appunto. Sono le ultime cose che mi dice prima di chiudere la connessione.

Mi restano una manciata di minuti con Elisabetta e devo far cadere l’argomento sull’uomo.

Mentre in tutto il mondo durante il lockdown giravano foto di animali che si riappropriavano del proprio originario ambiente, o comparivano addirittura nei centri disabitati delle città, nella foresta brasiliana, causa anche lo spostamento dell’attenzione mondiale verso l’emergenza Covid, i ritmi di distruzione non hanno accennato a fermarsi. A farne le spese non sono state solo piante e animali, ma l’uomo stesso, in maniera diretta e indiretta. Di quest’ultima conosciamo tutti bene le conseguenze a lungo termine: diminuzione di ossigeno, aumento CO2, perdita di biodiversità con rischi annessi e non ultima la maggior possibilità di salto di virus dall’ambiente ovvero dagli animali alle persone.

Ma chi sta già pagando le conseguenze di una politica criminale sono quel centinaio popolazioni indigene che ancora vivono nel cuore della foresta in un equilibrio con la natura che li vede volutamente privi di contatti con quella che noi chiamiamo civiltà, nome su cui oggi è lecito porsi degli interrogativi. I motivi sono sempre gli stessi: accaparramento delle terre per allevamento e agricoltura, industria estrattiva, mafia del legno, insomma economici.

In queste tribù gli anziani sono quelli che tramandano la conoscenza, ma non come la intendiamo noi. Il loro sapere è vivo, è sperimentato sul campo e anche se è legato, e certamente ristretto, al loro ambiente, è estremamente ricco e profondo. La Zavoli li definisce biblioteche viventi. E lo sono. Non esistono libri nè internet ma osservazione, interazione, esperienza.

La domanda che rivolge ai lettori è secca e non lascia scampo: “voi oggi, in coscienza, lascereste che venissero bruciate le biblioteche, consapevoli di perdere un sapere di millenni? I progetti artistici non danno risposte o soluzioni, pongono domande. Noi possiamo solo mettere dei semi”.

Voi lettori invece potete farli crescere. Incominciate abbandonando una prospettiva antropocentrica e immergendovi nel mondo degli insetti creato da Sara ed Elisabetta.

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