Visual

Anticorpi Bolognesi. Le relazioni che resistono al lockdown negli scatti di Giulio Di Meo

24-11-2020

Di Noemi Adabbo
Foto di Giulio Di Meo

Bianco e nero. Squarciano il rosso della Bologna dotta, un po’ grassa. Una lunga sfilza di foto. Un sacco di volti, un sacco di luoghi, che conosciamo e che si incontrano sotto i portici.

O forse no.

Non c’è più gente che fa balotta. Non si sente proferir parola. C’è solo un grande e immenso silenzio.

E questo silenzio Giulio Di Meo ha provato a carpirlo, fotografandolo e facendo dell’assenza presenza, dando voce a quella Bologna che di questi tempi è rimasta senza parole, ma soprattutto a quella che si è messa in gioco a sostegno degli ultimi, creando reti di solidarietà e di lotta. Da qui, il progetto Anticorpi Bolognesi che ha trovato forma in un libro, uscito il 16 novembre, pubblicato da Pendragon all’interno della collana Contemporanea. Un progetto di Witness Journal accompagnato dai testi di Sara Forni, assieme alle illustrazioni di Luca Ercolini/Elle e i poster di Vittorio Giannitelli.

Di Meo fa delle foto strumento di espressione e integrazione: un mezzo di denuncia e informazione, di cambiamento sociale, personale e politico. Una fotografia popolare che dà un volto alla voce delle persone, ma anche neorealista perché capace di far riflettere sulle tematiche del tempo. Il reporter non è solo colui che informa e non può limitarsi a questo, ma deve agire concretamente nella realtà che si accinge a documentare. Una fotografia umanistica ma concreta.

Osservo queste foto: uno sguardo allo specchio. Certo, in una versione retrò per la scelta cromatica, ma così vicina nei dettagli e nelle espressioni a ognuno dei soggetti scattati che, nonostante i nostri visi siano negli ultimi tempi costantemente coperti, riesce a far cadere la mascherina che ci ha mutato i volti ma non gli occhi. Giulio ha estrapolato questa mutazione dalle mura della città e l’ha messa, appunto, nero su bianco. Momenti di ordinaria quotidianità che questa pandemia ha cercato di strapparci ma che in Anticorpi Bolognesi si mostra ancora in tutta la sua sedentarietà: Bologna, la vecchia signora dai fianchi un po’ molli, non si tradisce e non ha intenzione di alzarsi dalla sua poltrona.

Cosa mi ha colpito di queste foto? La loro semplicità e la schiettezza con cui viene parsimoniosamente raccontata. Dalla signora che porta la spesa su per le scale al senzatetto appoggiato contro il marciapiede, alle dita annodate strette strette dietro la schiena di un anziano mentre passeggia per una delle vie del centro. Di Meo cattura il nostro sguardo e ci regala il suo, attento, mai scontato. Una scritta su un muro o un rider sulla propria bici, in chiamata al telefono, entrambi urlano la propria muta attesa, in un silenzio fagocitante.

Allora Giulio, Bologna sembra aver perso qualche chilo: si presenta dimagrita, senza più le sue amate maniglie dell’amore. Non sa che dire di fronte a questa situazione, come tutti poi, lei che non è mai stata zitta. Ecco, però tu, col tuo progetto hai voluto rompere questo silenzio e far parlare tramite le tue foto gli anticorpi della città, coloro che la difendono e resistono, come in un vero e grande organismo. Da dov’è nata l’idea?

“Il progetto è nato un po’ per gioco, un po’ per forza. Non sono bolognese ma vivo qui da una decina d’anni e l’ho sempre conosciuta come attiva, chiassosa, piena di persone e i primi giorni che andavo in giro (il primo l’ho fatto il 9 marzo, appena dopo la chiusura) mi ha assalito questo senso d’angoscia. Ho avuto davvero paura. Questo silenzio, una cosa inquietante.

E allora abbiamo pensato perché non provare a raccontare anche la reazione delle persone, dei cittadini, dei più giovani. Una reazione che c’è stata anche per forza, per proteggersi, mettendosi in discussione. Molti ne hanno approfittato anche per uscire di casa e stare un po’ in compagnia. Così, sei utile ma stai anche insieme agli altri”.

Cercare di unire un po’ l’utile al dilettevole, quindi. Nel momento in cui mancava la possibilità di stare vicino agli altri rappresentava una buona scusa per stare con gli altri.

“Esatto. Andavamo cercando la reazione che fosse non positiva, perché forse è troppo, ma neanche negativa. Propositiva, ecco, raccogliendo anche piccole storie di protesta se, ad esempio, si pensa ai riders che hanno rischiato, ci hanno messo la faccia perché, nonostante il periodo, hanno portato avanti le loro lotte. È un aspetto interessante e lo è ancora di più incanalato in questo frangente storico”.

Quali sono stati i principali soggetti delle tue foto, i luoghi o le persone? O lo sono stati in maniera paritaria? E quali sono state le principali emozioni, oltre a quelle della paura e dell’attesa, che hai voluto veicolare e trasmettere ma che hai anche voluto raccogliere?

“Sicuramente in prevalenza ci sono le persone, come in tutti i miei lavori: come fotografo sono appassionato alle persone e sono convinto che, una delle cose che la fotografia può fare, è quella di raccontare l’umanità, non in senso generale, ma l’umanità delle persone. Se si riesce un minimo a farlo, può servire anche ad accorciare le distanze, ad abbattere barriere e a far crollare muri.

Spesso, purtroppo, e ancora di più negli ultimi anni, in tutto il mondo, queste distanze aumentano e sono aumentate ma la fotografia può avvicinare. Insieme a Sara, girando per la città, che pare vuota, ti accorgi che in realtà le persone ci sono e cercano di stare insieme.

Storie che mi hanno colpito ce ne sono tante come i ragazzi delle Staffette Alimentari Partigiane. C’era chi prestava assistenza e portava i libri alle persone di strada, quelle più sole, e quelle, sì, sono state esperienze. Andare a casa del bambino straniero, senza scuola, senza compagni, senza l’educatrice che magari riusciva a vedere solo tramite telefono perché non aveva neanche il computer, è stato emozionante. Anche nelle strutture per disabili, dove gli operatori rivendicano il fatto che si parli sempre dei medici e degli infermieri ma di loro mai, loro che non possono fare a meno del contatto: come fai a togliere il contatto a delle persone disabili? O se pensi alle Cucine Popolari“.

So che in quel periodo hanno raddoppiato il loro lavoro.

“Sì, è raddoppiato anche il numero dei volontari e questo è importante perché significa che questo periodo ha messo più persone in difficoltà, più persone ad avere bisogno, ma sono emerse anche più persone che hanno voluto dare una mano, fare qualcosa“.

Inoltre, dato il suo ruolo durante la pandemia, il 10% del ricavato del libro andrà proprio alle Cucine Popolari, giusto?

“Sì, in realtà, un 40% del lavoro incassato è già andato alle Staffette Alimentari Partigiane e a Don’t Panic – Organizziamoci!, che sono le due azioni solidali che abbiamo sostenuto tramite la raccolta fondi che abbiamo fatto mentre, poi, appunto, un 10% del ricavato delle vendite del libro andrà alle Cucine Popolari. Dall’inizio era stato chiarito che chi avesse contribuito avrebbe ricevuto parte del ricavato, appunto per sostenere queste realtà solidali.

La nostra idea era quella di dimostrare come una fotografia, un’immagine anche molto semplice, può diventare oltre che veicolo di informazione anche veicolo di un atto concreto. Quindi una fotografia si può trasformare in pasta, in un libro, in una spesa per una famiglia bisognosa. Questo conferisce nobiltà al mestiere del fotogiornalismo che ultimamente vive momenti complicati. Ora fare informazione è diventato difficile, ancora di più con le foto, perché si rischia di trasmettere informazioni sbagliate quindi disinformazione”.

Le tue foto sono tutte in bianco e nero: perché questa scelta?

“È una mia fissazione. Quasi tutti i miei lavori sono in bianco e nero perché sono un grande amante degli autori del passato. Purtroppo drammatizza sempre anche se in questo caso drammatizzare meno era parte del nostro obiettivo”.

Anche se il bianco e nero tende a drammatizzare, la tua è, sì, una fotografia umanistica ma concreta quindi alla fine deve trasmettere ciò che è reale. Passiamo alla struttura del libro: ogni capitolo è a sè.

“Sì, c’è un’introduzione sulla città, con la prefazione di Roberto Morgantini, poi tutte le azioni e le storie che abbiamo raccontato. La fine del libro è stata dedicata alle riaperture: un’esplosione sia di persone che recuperavano la città ma anche della rivendicazione nelle sue varie declinazioni.

L’ultimo capitolo è stato lasciato proprio ai ragazzi perché coi soldi ricavati abbiamo fatto un piccolo laboratorio di fotografia e illustrazione, chiedendo loro come avevano vissuto il periodo e come si immaginavano la città e come pensavano di riappropriarsene”.

Qual è stata la reazione dei soggetti fotografati?

“Quella che più ci ha toccato è stata quella delle persone di strada e a loro abbiamo portato le loro foto stampate, anche quelle non inserite all’interno del libro. Questo gesto è stato fatto per tutte le realtà, dalla struttura per disabili alle Cucine Popolari”.

In questo momento di difficoltà, dove tutti lo siamo, queste persone che lo sono sempre state, forse, si sono sentite un po’ più protagoniste.

“Sì, infatti con noi portavamo la Polaroid, per lasciargli direttamente le foto, e ci chiedevano di farle insieme a loro. Questo dimostra la loro necessità di vicinanza, di avere qualcuno accanto”.

Qual è lo scatto che più ti è rimasto impresso e che pensi sia l’emblema di questa Bologna un po’ malata ma in via di guarigione?

“Un paio: una è quella dove la volontaria regala i fiori all’anziano, l’altra quella del collegamento telefonico tra un bambino senegalese e la sua educatrice. Non tanto come foto ma come momenti”.

Infine, Di Meo conclude con una frase, a mio parere, sintetizzante, non solo il suo intero lavoro, ma anche la sua persona.

“Forse, ho detto fin troppo. Un fotografo dovrebbe stare zitto. Se sa fare il suo mestiere, parlano le foto”.

Dopo questa, taccio.

Condividi questo articolo