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“Riconsegno alle salme i propri nomi”. L’artista Arkadi Zaides chiude il festival Atlas of Transitions con una performance

03-12-2020

Di Martina Fabiani

Il termine “necropoli” è circondato da un’aura di sacralità: non solo mero luogo di sepoltura, ma portatore di miti e credenze, miniera di informazioni sulle civiltà del passato.

Il culto dei morti per molto tempo ha ricoperto nella cultura degli antichi una posizione centrale, sacra e inviolabile. Oggi le cose sono un po’ cambiate: la maestosità del passato rimane in alcuni luoghi tombali, ma li si vive secondo una dimensione più privata. Lì, a prescindere dal credo religioso di ciascuno, possiamo piangere o onorare i nostri cari defunti, ritagliarci un momento con loro, ricordarli.

Dal 1993 al giugno 2020 sono 40555 i migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa: lo attesta una lista redatta da United for Intercultural Action, un network di centinaia di organizzazioni antirazziste provenienti da tutta Europa. Sebbene la giurisprudenza europea stabilisca diverse procedure per la gestione dei cadaveri a seconda di morte per causa naturale, accidentale o criminale, la grande maggioranza di quei decessi rimane, però, priva di elementi identificativi. Morti, dunque, consegnate all’anonimato.

Ci sono storie, identità e tracce sui fondali marini e in luoghi nascosti d’Europa mai ascoltate, mai raccontate. Arkadi Zaides porta in scena una performance a metà strada tra indagine scientifica e ricerca corporea il cui scopo è dare un’identità a quelle vittime mai riconosciute.

Si chiama Necropolis e andrà in scena lunedì 7 dicembre alle 21 sulla pagina Facebook di ERT Fondazione e sulle pagine Facebook e Youtube di Atlas of Transitions come evento conclusivo della biennale We The People, online dal 2 al 7 dicembre 2020.

Necropolis

Il festival segna la conclusione del progetto europeo Atlas of Transitions. Undici partner in sette paesi diversi hanno collaborato negli ultimi tre anni per progettare e realizzare, attraverso diverse pratiche artistiche, esperienze di interazione tra cittadini europei, residenti stranieri e nuovi arrivati.

Realizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione, con la cura di Piersandra Di Matteo, We The People, nonostante le limitazioni dettate dalla pandemia, intende tessere relazioni di prossimità nella distanza predisponendo “spazi acustici” nei quali ribadire l’urgenza di una politica dell’ascolto dell’altro. Attraverso performance, proiezioni filmiche, incursioni radiofoniche e workshop, vuole essere un invito a contrastare ogni subalternità razziale, di genere, sociale, economica.

La performance del coreografo bielorusso Arkadi Zaides nasce, dunque, da un vero e proprio progetto di ricerca-azione, iniziato tre anni fa e destinato a non esaurirsi perché come lui stesso dichiara “la possibilità di riconsegnare alle salme i propri nomi non termina mai perché le morti non si esauriscono mai”.

Cresciuto in Israele, Zaides nasce come coreografo e da sempre la sua ricerca ha a che fare con la dimensione corporea. Nel tempo si è interessato al rapporto tra corpo, movimento e conflitto anche attraverso un lavoro archivistico.

Lunedì 7 dicembre dopo la proiezione di Necropolis il regista dialogherà insieme alla giornalista Francesca Mannocchi e al docente dell’Università di Bologna e attivista Sandro Mezzadra.

Arkadi Zaides | Foto di Joeri Thiry

Partendo dalla lista di United, Arkadi Zaides e il suo team si sono ispirati alla pratica dell’investigazione forense e recati in diverse città europee, tra cui Bologna, per arrivare a costruire un deposito virtuale che documenti queste morti senza nome. Contattando istituzioni locali, archivi, esperti e operatori coinvolti nella gestione della crisi migratoria, il team ha raccolto informazioni utili a localizzare alcuni luoghi di sepoltura.

Arkadi estende la sua ricerca non solo ai migranti morti in mare, ma anche a quelli deceduti, ad esempio, nei centri di accoglienza o negli ospedali. Un confine che non è solo quello geopolitico, determinato dal mar Mediterraneo, ma si palesa anche nel cuore dell’Europa.

I corpi dei migranti che Arkadi vuole riscattare portano il confine con se stessi. Sono morti in un’Europa che non si prende cura di loro, che guarda altrove. È forse l’Europa la città dei morti?

Ad un livello analitico Necropolis è un archivio in costante aggiornamento, una mappa, una lunga lista di informazioni raccolte su una piattaforma virtuale.

Ma cosa vedrà lo spettatore?

Nella prima parte dello spettacolo attraverso Google Earth vengono mostrati allo spettatore alcuni luoghi di sepoltura dall’alto fino ad avvicinarsi sempre più. Una soggettiva porterà poi ad assumere gli occhi di Arkadi e camminare con lui fino a raggiungere fisicamente la tomba.

Questa prima parte dello spettacolo è intervallata da voci off che narrano un culto dei morti in una “città dei morti”.

Necropolis | Foto di Institut des Croisements

La seconda parte è caratterizzata da una coreografia di sculture morbide come parti di corpo umano piene d’acqua. Oggetti creati dal performer e visual artist Moran Senderovich sono utilizzati per presentare sul palco la fragilità della carne.

Infine, con il supporto della tecnologia avatar, il video-artista Jean Hubert permette a questi oggetti di emergere nello spazio virtuale e la danza dei morti, la necro-coreografia prende il centro della scena.

Ad un livello simbolico Necropolis è un panorama invisibile da cui emerge un complesso universo di miti, storie, geografie e anatomie. Oltre il mero dato scientifico, c’è un altro livello di rappresentazione. L’elenco subisce una trasformazione. Un linguaggio freddo e un linguaggio caldo si contrappongono e si amalgamano in una performance che riesce a combinare aspetti documentaristici e artistici.

“La potenza di questo lavoro sta nel fatto che riesce a mescolare il dato scientifico con quello affettivo. Mi auguro che l’arte abbia la capacità di smuovere le coscienze perché, a differenza di altri strumenti, sa rivolgersi ai corpi aprendo visioni mai contemplate prima”, afferma Piersandra di Matteo, curatrice del Festival.

Necropolis è un viaggio collettivo verso la giustizia e la dignità di ogni essere umano, una preghiera a non girare lo sguardo altrove di fronte a tragedie disumane.

 

Il festival ha inaugurato ieri con We The People, un intervento di arte pubblica visibile fino al 7 dicembre. Nelle bacheche urbane della città Cheap espone le fotografie di Michele Lapini in cui sono ritratte adunanze, assemblee cittadine, proteste, azioni collettive di movimento, riti commemorativi, manifestazioni, riportando i corpi in strada. Si chiama Concertata: una narrazione visiva del conflitto, delle aspirazioni al cambiamento e delle tensioni ideali collettive nello spazio pubblico.

Su emiliaromagnateatro.com potete consultare il programma completo de festival.

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