Musica & Libri

Bologna Poetica. Intervista itinerante a Eva Laudace

20-06-2024

Di Pietro Romozzi
Foto di Laura Bessega

Qualche mese fa abbiamo sperimentato l’intervista itinerante, un giro nei luoghi di Bologna legati a un autore e alla sua opera; una maniera diversa, psicogeografica, di mappare lo spazio urbano e di conoscere gli autori che questo spazio lo abitano e lo vivono.

Con il sole di giugno ci siamo ricascati, stavolta con Eva Laudace, poetessa, fotografa e… ingegnere. Eva ha pubblicato diversi libri di poesie, il suo ultimo lavoro è Le bambine dai capelli rossi (Capire Edizioni) e fa parte del Consiglio Direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.

L’appuntamento è in zona Murri, alla Drogheria delle Api, una drogheria di quartiere accogliente e familiare; luogo ideale per rompere il ghiaccio:

 

La Drogheria è un luogo che frequenti e dove vieni spesso a scrivere. Che importanza ha il luogo dove scrivi per quello che scrivi?

«Risponderei con Virginia Woolf: “una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere”; la stanza può essere una stanza spirituale, dell’interiorità, ma per me scrivere non è un’attività che avviene in isolamento, scrivo nei bar, nei mezzi di trasporto. 

Mi affeziono a certi luoghi, come questo, e se il bar come luogo fisico è un catalizzatore di persone per me può diventare un catalizzatore di pensieri».

La tua anima umanistica di poetessa convive con quella più tecnica di ingegnere. Quand’è che l’ingegnere è diventato poeta?

«Difficile individuare un momento preciso, direi forse il 2013, anno in cui ho vinto un premio nazionale per l’inedito (InediTO – Premio Colline di Torino, ndr) e ho pubblicato il mio primo libro Tutto ciò che amo ha dentro il mare; nello stesso anno ho incontrato il mio maestro, Davide Rondoni, e i poeti che frequentano il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. L’avvicinamento a queste persone mi ha aiutato a capire che quello che stavo facendo aveva un senso anche per altre persone, ed è stato molto importante per me che ho avuto una formazione così lontana dalla letteratura. 

Da lì è iniziata la mia vita con la poesia e anche il mio sguardo è cambiato».

 

E perché, a tuo avviso, un profilo “tecnico” avverte la necessità di esplorare luoghi altri dell’esperienza così distanti dalla propria professione?

«Secondo me ad un certo punto tutti gli ingegneri impazziscono! 

Battute a parte, la poesia e l’ingegneria sono entrambe percepite come pesantissime, due materie “da cervelloni”. Potremmo dire che il poeta è l’ingegnere della letteratura; e non mancano gli esempi, come Sinisgalli, o Gadda.

Quello dell’ingegneria è un ambiente molto rigoroso, rigido e rispetto a questo la poesia è una rivoluzione. è come vedere la farfalla dentro un bicchiere: il bicchiere è la mente rigida, e poi c’è il volo della farfalla che è il dinamismo e il movimento della vita. Scrivere una poesia è osservare questo movimento».

 

Ci allontaniamo dalla Drogheria in autobus, uno in particolare che è esso stesso una meta-tappa in quanto luogo di scrittura e luogo che ha ispirato alcuni versi di Eva:

(…) Mamma ti cedo il mio posto in corriera

da sempre l’amore per me

è un atto migratorio

gentile si alza e se ne va.

(da “Sua altezza di baci”, Capire edizioni)

Ci accennavi all’inizio che scrivi anche sui mezzi di trasporto. Come si fa poesia in movimento?

«La scrittura di una poesia è molto diversa da quella di un testo in prosa. La poesia si muove per immagini e visioni, che potrebbero arrivare in ogni momento: la visione arriva, ne resti folgorato e allora inizia un lavoro di ricomposizione, di scrittura mentale.

Non sai mai quando inizia, né quando finisce il lavoro di un poeta. Il lavoro può compiersi nel momento in cui “chiudi” un testo, ma non è detto che non ci tornerai su successivamente, che lo rilavorerai».

 

C’è, dunque, un metodo per fare poesia? O, se non altro, qual è il tuo metodo?

«Il metodo che consiglierei è l’ascolto, perché la poesia nasce dall’attenzione. Ascolto non solo di sé stessi, ma anche degli altri, perché gli altri sono uno specchio di sé. E poi la lettura: ci sono tanti scrittori terrorizzati dal “blocco”, dal non riuscire più a scrivere. In questi momenti io mi concentro sulla lettura: è come seminare, in attesa del futuro raccolto».

 

Raggiungiamo nel frattempo le Serre dei Giardini Margherita, un altro dei luoghi di scrittura di Eva. Le serre sono un’oasi urbana, coloratissimo luogo d’incontro tra spazio artificiale e naturale.

Quanto è importante l’estetica di un luogo quando lo si sceglie per scrivere?

«L’estetica, si tratti di uno scorcio particolare o una particolare cromia, genera quell’armonia così importante quando si vuole scrivere. Alle Serre trovo questa armonia e, non ultimo, è un luogo dog friendly (Eva ha adottato una cagnolina, Mina, dalla quale non si separa mai, ndr)».

 

Parliamo del tuo ultimo libro, Le bambine dai capelli rossi, selezionato anche per il Premio Strega. Da dove nasce e quali tematiche affronta?

«Il libro affronta l’irreparabilità della violenza. All’inizio pensavo di scrivere un poemetto sulla diversità caratterizzandola fisicamente con i capelli rossi della bambina, personaggio con il quale volevo dare voce ad una minoranza. Ho letto questo poemetto in diversi festival ed eventi e, in una di queste occasioni, una persona venne a dirmi che le ricordava dolorosamente la sorella. Lì ho capito che stavo parlando di violenza, ma senza esserne del tutto cosciente e ho sentito l’esigenza di riscriverlo dal punto di vista di una sorella o donna che affiancasse la bambina e di aggiungere una terza voce, quella feroce, brutale, dell’Uomo Nero, ispiratami dalla tradizione del racconto orale. A questo proposito è stata utile la lettura della conferenza di Garcia Lorca sulle ninne nanne».

La conversazione ci porta verso Piazza Santo Stefano; qui lasciamo che sia la poesia di Eva, ispirata da questo luogo, a parlare:

Mi assumo il rischio di amarti

passeggiando in sordina

nel mercato di gennaio

i libri imbevuti di pioggia

“Questo è un pezzo d’antiquariato?”.

Scendo a patti

una dolce omissione si colleziona.

Se solo ammettiamo qualcosa di reale

ho dubbi a fiotti da scansare

li lascio andare ai vestiti

neri alle marionette

un unicorno bussa piano alla finestra

battaglie

perse

con me stessa le più tristi lotte.

Di sfuggita prego

pago poco?

Provo ad asciugare dal maltempo

gli occhi inumiditi della camera.

C’è sempre qualcuno che guarda

nascosto

il dolore degli altri crea imbarazzo.

(Ibid.)

Ci lasciamo la piazza alle spalle per raggiungere la nostra ultima tappa: la Galleria d’Arte Portanova12. Qui ci raggiunge Massimo Cattafi che, insieme ad Eva, organizza periodicamente delle mostre dove la poesia dialoga con l’arte visiva.

Per allestire questi happening, ci racconta Massimo, alcuni componimenti di poesia sono proposti ad artisti contemporanei di urban art e illustrazione per realizzarne delle opere che, insieme ai testi stessi, danno vita ad una mostra temporanea. I testi, letti, discussi e approfonditi nell’ambito della mostra, appartengono a poeti da riscoprire, sui quali riportare l’attenzione: “accendiamo la lampada su un poeta”, aggiunge Eva parafrasando Emily Dickinson.

 

Le chiediamo come sia nata questa collaborazione con Portanova12 e sulla finalità di mettere in dialogo queste due differenti forme d’arte…

«La collaborazione nasce dall’incontro con Massimo durante un mio reading di poesia, dove ci siamo ritrovati a parlare del poeta Bartolo Cattafi (parente di Massimo, ndr), che non conoscevo approfonditamente. Dall’idea di ripercorrerne l’opera è nata la collaborazione tra Portanova12 e il Centro di poesia contemporanea.

Riguardo al dialogo tra le arti, già in passato avevo collaborato con un fumettista e in prima persona mi sono avvicinata al disegno e alla fotografia: il mio dare in versi deve molto al contatto con altre forme d’arte. Ma non intendo il dialogo come affiancamento di due opere in diversa forma, quanto al fatto che un’opera, ad esempio un’illustrazione, stimoli la sensibilità del poeta per ispirargli dei versi: una sorta di riscrittura. Allo stesso modo l’immagine può dare uno spazio nuovo alla parola scritta».

A conclusione di questo itinerario attraverso la poesia, in senso metaforico e non, vorrei chiederti come sta la poesia oggi?

«Bene, ma non benissimo. Penso che le persone non smetteranno mai di comprare libri di poesia. Il libro in sé, e il libro di poesia in particolare, diventa a volte un oggetto sacro, anche se non lo si legge. Pensa che certe volte, quando dormo da sola, a me capita di tenere dei libri sul letto, di dormire con questo o con quel poeta per sentire la carezza della poesia.

In fondo la poesia non si misura con le vendite, ma con il tempo; in più mancano fondi per la poesia e, in generale, per la cultura. In questo contesto la poesia sopravvive, la poesia è una sopravvissuta».

 

E a quale futuro va incontro la poesia?

«Molti temono la tecnologia. La mia generazione ha vissuto tantissimi cambiamenti tecnologici ma la poesia non ne è stata intaccata. Si parla di intelligenza artificiale ma, come dice la parola stessa, è un artificio, manca l’esperienza della vita che sta dietro alla poesia e che la macchina non avrà mai. Magari ci saranno degli esperimenti in questo senso, ma non credo che in futuro i testi poetici si comporranno da soli. Io credo nell’uomo e nell’intelligenza, che non è artificiale, ma umana.

Potremmo anche pensare che le possibilità della tecnologia possano farci riapprezzare l’artigianalità, dunque il sudore e il sangue che un poeta mette nei suoi versi».

Condividi questo articolo