C’era una volta, non tanto tempo fa, un luogo in cui le persone potevano essere davvero loro stesse. Lontano dagli ambienti grigi delle città sorgeva una grande piramide di vetro la cui musica, come il canto di un gallo, svegliava le notti buie di un intero Paese. In verità quel luogo esiste ancora oggi, ma per capire cos’è stato davvero il Cocoricò negli anni ’90 avreste dovuto essere lì. Meta di pellegrinaggio imprescindibile per gli amanti della musica techno e centro di esplorazioni avanguardiste, il più famoso locale della Riviera era molto più che una semplice discoteca, ma un “museo di arte in atto” sempre in bilico tra teatro e trasgressione, dove “anche indossare una maschera poteva essere liberatorio”.
Per la regia di Francesco Tavella il documentario Cocoricò Tapes si propone di raccontare tutto l’immaginario del Cocoricò di quegli anni attraverso materiali e interviste inedite ai veri protagonisti di quelle notti travolgenti. I contributi video presentano testimonianze di personaggi diventati iconici come lo storico art director Loris Riccardi, la mente dietro alla creazione del locale, accompagnate da musiche originali composte dal musicista Matteo Vallicelli. Il film è stato finanziato attraverso una campagna di crowdfunding che ha coinvolto più di 200 sostenitori, ed è prodotto da La Furia Film e Sunset Produzioni con il sostegno della Regione Emilia-Romagna.
In occasione della presentazione del documentario in anteprima mondiale il 18 giugno alla 59esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema a Pesaro, abbiamo raggiunto il regista Francesco Tavella per parlare dello sviluppo del documentario e di come la storia del Cocoricò segua quel passato a cui tutti vogliamo tornare, un periodo di libertà e promesse in cui ci sentivamo felici, e non lo sapevamo.
Ciao Francesco, come stai? Nervoso per la prima del documentario al Pesaro Film Festival?
«Sto bene e sono contento della prima a Pesaro. Forse è ancora presto per essere nervosi, però questo nervosismo viene smorzato dal fatto che Pesaro è un po’ una continuazione della Romagna, molto affine al territorio e a due passi da Riccione. Il Cocoricò è molto sentito a Pesaro, sicuramente alcune persone si sposteranno per venire in Piazza del Popolo a vedere il film; quindi, questo smorza un po’ le tensioni».
A chi è rivolto questo film?
«Mi interessava che questo film arrivasse a tre tipologie di persone: a chi il Cocoricò lo ha vissuto e lo ha amato, e questa è quindi un’occasione per rivedere quello che è stato; a chi lo conosceva, ma per un motivo di pregiudizi non lo ha mai frequentato, e dargli quindi la possibilità per vedere, più o meno, che cosa succedeva; e ai “ragazzi di oggi”, che conoscono il mito del Cocoricò e che ne hanno sempre sentito parlare proprio come un mito. Diciamo che l’idea è stata proprio quella di valorizzare gli archivi il più possibile e le musiche per cercare di creare un film immersivo nel quale abbandonarsi leggermente ai ricordi personali di quel periodo».
Come sono strutturati i “tapes” di questa raccolta?
«Semplicemente è stata creata una struttura per blocchi in modo tale da creare una narrazione che potesse andare avanti senza essere classica, partendo proprio dall’idea che il documentario non doveva essere un biografico sul Cocoricò, ma un film sui sentimenti che hanno accompagnato il locale e sul modo di vivere di quegli anni. Il film inizia con l’invito “Game Over – Try again” e finisce con Loris che dice che quello che loro hanno fatto in quegli anni e che hanno condiviso, ovvero il piacere di fare le cose per gli altri, non c’è più. Ed è un po’ una chiave per ritornare ad avere quel tipo di creatività e voglia di fare. Questo è un po’ il senso del film, far vivere questa esperienza. E che cosa c’è di più reale del materiale amatoriale di una persona che ha girato lì dentro?».
E come hai cercato di raccontare un’esperienza che è impossibile da descrivere?
«Il Cocoricò è difficile da raccontare per tantissimi motivi, perché non è un evento unico. Il Cocoricò storico viene attribuito alla figura di Loris Riccardi, è lui che ha creato quel tipo di locale, con quel tipo di eventi all’interno, con quel tipo di performance, con la diversità delle varie sale. Tutti quelli che ho sentito mi hanno detto che il Cocoricò è stato fatto da Loris Riccardi; quindi, da lì è stato semplice tagliare fuori tutto quello che non c’entrava con la sua gestione. Il film parla degli anni che vanno dal ’93 al 2000 per una scelta analogica e per rimanere affine al materiale che abbiamo trovato. Volevamo restare su un concetto molto anni ’90 e per poterlo raccontare ho scelto di seguire una linea più visiva e meno narrativa, utilizzando il più possibile gli archivi originali proprio perché volevo che non si venisse a creare un effetto nostalgia, ma testimonianze originali – prese anche istintivamente – di quel momento. Ed è per questo che ci sono le interviste quelle fatte all’interno del locale».
Come sono stati recuperati i materiali d’archivio?
«Tutto è nato da un amico musicista, Matteo Vallicelli – che si occupa anche delle musiche del film -, che un giorno mi ha detto che un suo amico conosceva una persona che aveva parecchi materiali amatoriali del Cocoricò. Dopo aver visionato questi materiali è stato un attimo entrare in contatto con quello che è stato lo staff storico del Cocoricò, in primis Renzo Palmieri, Silvia Minguzzi, per poi arrivare all’art director storico, Loris Riccardi. Hanno avuto fiducia in me e nel progetto e si è aperta una rete di centinaia di persone, tutte abbastanza disponibili a mettere i propri materiali per il film. Anche usando i social, visto che il Cocoricò è considerato un mito e ci sono ancora tanti gruppi su Facebook. Questa ricerca è stata anche la parte più bella».
C’è qualcosa in particolare che ti ha colpito in questa ricerca?
«Quello che mi è piaciuto è stata un’enorme diversità di linguaggi e la possibilità di essere realmente creativi, perché si passava dal mettere i carri armati in pista al buddhismo e passare a una stagione mistica. Mi è piaciuto molto è l’idea che l’art director si facesse influenzare dal mondo esterno, non era più una discoteca intesa come luogo in cui si balla e si accendono e spengono le luci, ma quasi un luogo – e molti lo pensano – dove la musica era secondaria. Era il contesto che ti rendeva partecipe di un qualcosa di unico, e le persone lo percepivano, perché il Cocoricò è stato un mito da subito, non ha dovuto aspettare 20 anni per diventarlo. La nuova forma che sono riusciti a creare è stata un contenitore di varie culture, teatro e discoteca. È strano, e mi piace, vedere presenti anche persone come Manlio Sgalambro e Franco Battiato, perché sono completamente all’opposto di questa realtà. Però evidentemente anche loro erano incuriositi da questo contesto antropologico particolare».
Cosa ha avuto di speciale il Cocoricò rispetto alle altre discoteche?
«La cosa sorprendente era proprio riuscire a fare cultura in un contesto di discoteca. Una cosa che mi affascina del Cocoricò è che poteva stare contemporaneamente nella pagina di costume e società e in quella della cronaca, perché i media ne erano attratti, e forse lo hanno sfruttato in maniera impropria. Da un lato piaceva far vedere l’eccentricità, dall’altro quella roba lì era il male, c’era un movimento contro un certo tipo di divertimento che forse era un po’ sfuggito di mano. Il punto del film è proprio questo, spero di esserci arrivato. Però non voglio dare un giudizio su quegli anni, ognuno deve farsi la propria opinione».
Il film è molto legato all’immaginario degli anni ‘90, come mai ci appaiono ancora così desiderabili?
«Gli anni ’90 sono stati abbastanza frenetici. Il film inizia con la caduta del muro di Berlino, che è stata per i giovani europei una promessa mancata. Sembrava che tutti potessero contaminarsi, c’era l’idea di un’Europa unita. Con la caduta delle Due Torri tutto ciò ha avuto un’interruzione netta. Oggi credo – ma non è il mio settore – che questa prospettiva sia ulteriormente più offuscata e i ragazzi di oggi, figli di gente che gli anni ’90 li ha vissuti, notino nel passato principalmente tanta diversità. Adesso c’è forse più uniformità. Anche le foto che ci sono al Cocoricò di persone non stravaganti in senso assoluto avevano un approccio personale».
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