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Un corso di cucina diventa una canzone. Esce “Ci sono sogni” dei ragazzi del carcere minorile

19-11-2019

Di Laura Bessega

A metà di via del Pratello, in mezzo al caos e a chi fa le ore piccole, tra bar e osterie, c’è un ex convento del 400. Al suo interno ci sono tanti giovani che la vita, in una delle vie più movimentate di Bologna, non la possono vivere. È il carcere minorile della città.

E se i ragazzi che lo popolano non possono uscire, adesso siamo noi che possiamo entrare, a mangiare, all’osteria Brigata del Pratello in via del Pratello 34. Cene-evento aperte al pubblico in cui saranno coinvolti, come cuochi e camerieri, i ragazzi detenuti che partecipano a un percorso formativo.

“C’è la passione per la cucina

puoi assaggiarla anche tu

a casa aspetta una bambina

tutto l’amore è nel menù”

Oggi è stato pubblicato su youtube il video della canzone Ci sono sogni, realizzata per quest’osteria ancor prima che aprisse e nata dalla collaborazione tra i giovani detenuti, Fabrizio Cariati, musicoterapeuta e musicista, e i Nuju che si sono prestati all’arrangiamento del brano.

È un incontro tra la musica e la cucina, il frutto di un lavoro comune, un momento di liberazione. È un inno al riscatto. La bambina che aspetta fuori c’era davvero ed è la figlia di uno dei ragazzi del carcere minorile.

“Le cose vissute diventano musica. I ragazzi hanno voglia di parlare di se”.

Fabrizio insegna loro a esprimersi coniugando note e parole. Lo fa con Leporello dell’associazione Mozart 14, progetto che si occupa di song writing e musicoterapia all’Istituto Penale Minorile di Bologna. E lo fa anche con Fomal (Fondazione Opera Madonna del Lavoro), ente di formazione nell’ambito della ristorazione, che cinque anni fa gli propone un laboratorio di una ventina di ore con i giovani detenuti che seguono il corso di cucina.

“Fomal lavora all’apertura dell’osteria da 10 anni quindi era nell’aria. Detto ciò l’idea è stata: scriviamo la canzone per l’osteria a prescindere da quando aprirà”.

Due strofe, alcune ricette e tante sensazioni.

“Vuoi sapere come funziona il song writing? Tu gli chiedi: cosa siete riusciti a fare in cucina? Come si fa la piadina? E loro per esempio ti rispondono: ‘noi facciamo la ricetta vecchia scuola’, e poi tra una rima e l’altra, seguendo i ritmi del rap, della trap o dell’hip hop, inseriscono qualcosa che gli appartiene. Devono tirare fuori il loro vissuto e farlo andare al di là delle sbarre e dei muri. In fin dei conti questo è l’unico modo che hanno per uscire…”.

Fabrizio Cariati

E Fabrizio, se l’hip hop lo comprende, con la trap fa un po’ più fatica. C’è un aspetto che come educatore lo preoccupa: il ganster come star. Soldi, belle macchine e ragazze.

“Una volta un ragazzo mi ha chiesto quanto guadagnavo, gli ho detto circa mille euro. Lui non ha esitato: io questi soldi li guadagnavo in due giorni”.

Fabrizio non ha avuto dei dubbi nel rispondergli: questo è il motivo per cui tu sei qua e io tra mezz’ora vado a casa. Anche se gli costa fatica, sa che l’autorevolezza, e non l’autorità, come tiene a precisare, è necessaria per fare gli educatori. Non può essere titubante perché quei giovani non sono dentro perché hanno fumato una canna.

Hanno commesso dei crimini. Crimini veri. Il sogno di fare i soldi nella musica ce l’hanno un po’ tutti, anche lui ce l’aveva però rappresentavano il mezzo per poter realizzare delle cose, mentre oggi sembra siano diventati l’obiettivo. “Quando ho iniziato a suonare è stato per rimorchiare, poi finiva che ai falò sulla spiaggia io suonavo la chitarra e gli altri rimorchiavano”. Ridiamo.

Per Cariati ci sono anche nuovi movimenti in cui ripone delle speranze. Cita Ghali e Mahmood. I concerti del primo sono coloratissimi, pieni di immigrati di prima generazione. “Mentre al telegiornale i nostri politici parlano di differenze, tra i banchi di scuola i ragazzini con diversi colori di pelle sono amici e vanno ai concerti insieme”.

Nelle canzoni del secondo si cita il Ramadan e si suonano i bonghi, elementi che presumono “un’integrazione e non alzano muri tra le diverse culture. Non si può più parlare di diversità con un ragazzo che nasce in Italia anche se non ha il colore della pelle bianco”.

La musica come terapia: come funziona esattamente? Qual è il tuo scopo e come riesci a ottenerlo?

“Noi facciamo delle grandi improvvisazioni musicali. Improvvisare significa sapersi ascoltare. Io ti lascio libertà ma questa libertà va regolata. Non devo suonare più forte di un altro a meno che non mi venga data la parola, un po’ come nel jazz.

Si inizia insieme, si fa emergere il suono di uno strumento anziché di un altro e si conclude tutti insieme. È un’esperienza educativa, forte e positiva ma che non sempre riesce. Scrivere una canzone ha spesso l’effetto di un boomerang. Negli anni ho lavorato a molti brani insieme ai ragazzi. Alcuni poi mi chiedevano di non mostrarli, altri volevano farli sentire al mondo, altri ancora non si identificavano in ciò che avevano scritto.

Mi piace fare l’educatore perché per farlo devi essere in prima fila e sporcarti le mani. Ti faccio un esempio: la domenica ci sono le pulizie dei bagni della comunità. Io dico ai ragazzi: ‘io mi occupo di quello degli adulti, io voi fate i vostri’. Rimangono sorpresi e si chiedono: ‘Fabri ma tu pulisci?’ E io gli rispondo: ‘certo è casa vostra e nostra, io ci sto otto ore, voi ci dormite anche’.

Tempo fa ho portato in giro uno spettacolo da solista dal titolo ‘Quando la musica è terapia’ in cui si sfata il mito scientifico e si riconduce tutto ai benefici della musica nella quotidianità. C’è la canzone che mi gasa prima di uscire e quella che mi fa piangere quando ho bisogno di piangere, c’è la canzone da cantare sul motorino e quella sotto la doccia.

Non si può però sminuire il concetto clinico della musicoterapia. Ci sono pazienti che soffrono di Parkinson e hanno inventato una definizione molto emblematica: mi sento smusicato. Ci sono i balbuzienti che non balbettano quando cantano. È come se avessimo delle stanze nella nostra testa che ci riconducono ad una condizione di normalità, azzerando eventuali handicap. La musica ha indubbiamente dei canali preferenziali”.

Questa canzone è frutto dell’incontro di due mondi, la cucina e la musica. Cos’hanno in comune e che prospettive ci sono per i ragazzi?

“C’è un elemento che le accomuna e secondo me è la condivisione. Se penso a qualcuno mentre preparo il cibo allora sto cucinando, altrimenti sto solo facendo da mangiare. Anche la musica è condivisione. Posso scrivere per dar luce ai miei pensieri ma di solito compongo e suono in gruppo. Sono entrambe espressioni artistiche anche se di questi tempi è sicuramente più facile trovare lavoro con la ristorazione piuttosto che con la musica.

Io ai ragazzi con un forte estro espressivo però gliela faccio una battuta: magari aprirai un locale dove i tuoi camerieri ad un certo punto fanno un flash mob di gruppo cantando un pezzo in sala. Non bisogna vendere sogni, bisogna regalarli. E quello che fa Fomal all’Istituto penale minorile è importantissimo. All’affamato non gli do il pesce, gli insegno a pescare”.

 

Vuoi darmi tre aggettivi per l’attività che svolgi?

“È una domanda difficile, dovevamo prepararla prima”.

Sorride e ci pensa un attimo.

Coinvolgente. Un pò tutte le arti lo sono ma la musica ti smuove qualcosa di potente dentro, anche se a volte va a toccare delle note che non sono quelle giuste.

Evocativa. Spesso le canzoni diventano le cose che non siamo riusciti o che non sapevamo come dire. E a volte raccontano quello che non abbiamo il coraggio di dire neanche a noi stessi.

E poi è un collante, che va al di la dell’età, della razza, delle origini e dei gusti.

Quello che riesce a fare è davvero unire persone che non pensavano di avere delle cose in comune. A volte capita con colleghi che, finita la lezione, andiamo via e sentiamo i ragazzi che continuano a cantarla in cella”.

 

“Scusa mamma per il dramma, è solo una condanna. Siam forti più di un’arma”.

Alcune delle canzoni del progetto Leporello per un periodo sono quasi diventate un inno per i ragazzi del carcere. Sono testi molto profondi, spesso autobiografici. C’è sempre un pò della loro storia tra le righe.

Chi lavora nel sociale non lo fa per i soldi ma perché si arricchisce dentro.

Io imparo dagli altri più di quanto gli insegno“.

A Fabrizio piace fare l’educatore. Mi racconta di un ragazzo che suona la tromba, è lo sfigato della scuola. Si incontra a suonare con tre rapper, che invece sono i fighi della scuola. Il giorno dopo a ricreazione vede lo sfigato che saluta il figo e viceversa. Il risultato c’è e va oltre l’inclusione scolastica. Il linguaggio della musica è universale e il suo potere è enorme, come quello di tutte arti.

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