Musica & Libri

“È da 35 anni che siamo contro il lavoro”. Lo Stato Sociale esce con un nuovo romanzo, “Sesso, droga e lavorare”

18-09-2019

Di Pietro Romozzi

Lo Stato Sociale è arcinoto per l’attività musicale, ma non si risparmia incursioni nel mondo della televisione, della radio o nel panorama letterario. Li avevamo già raggiunti in occasione dell’uscita della loro graphic novel, Andrea.

Insomma, quella del collettivo bolognese è tutto fuorché “una vita in vacanza”.

Per farci perdonare una battuta così orrendamente scontata, abbiamo deciso di rincontrare nuovamente i ragazzi in occasione dell’uscita del loro nuovo romanzo Sesso, droga e lavorare in uscita il 19 settembre per il Saggiatore. Sempre nella stessa data, alle 20,30, sarà presentato a Bologna all’Oratorio San Filippo Neri.

Partiamo dal titolo: Sesso, droga e lavorare. Quel “lavorare” che sostituisce il “rock ‘n’roll” nella nota formula fa pensare da un lato che il lavoro sia “the new rock ‘n’roll”, un moderno trip generazionale; dall’altro lato fa pensare all’imborghesimento dei 20 – 30enni: laddove la generazione precedente aveva il rock ‘n’roll come esperienza creativa e di liberazione, la generazione attuale si appiattisce sul lavoro.

Ci dite di più?

“La cosa che ci piaceva particolarmente di questo titolo era proprio l’ampiezza della sua portata in termini di significati.

In realtà però il titolo nasce a libro già concluso, il titolo iniziale era “I 50 colloqui di Arturo e il suo futuro ancora incerto”. In quel periodo stavamo lavorando davvero tantissimo, tra le canzoni, il romanzo, stare costantemente in giro per le promozioni…

Pensare che questa doveva essere la vita del rock ‘n’roll e invece stiamo sempre a lavorare: lì è venuta fuori la formula ‘sesso, droga e lavorare’ che, in effetti, era anche un titolo perfetto per il libro, tanto più perché il protagonista esplora il sesso, le sostanze, ma sempre governato dal lavoro che è intanto è diventato complicato, ‘storto’, senza una direzione chiara, grezzo come il rock. Una riflessione sul mondo del lavoro che incontra la necessità di un titolo forte”.

E dopo la genesi del titolo, quella dell’opera: come nasce Sesso, droga e lavorare?

“’I 50 colloqui di Arturo e il suo futuro ancora incerto’ voleva essere una presa in giro di ’50 sfumature’ (riferendosi al romanzo ’50 sfumature di grigio’, ndr), parlando però del ‘lavoro sfigato’.

Abbiamo iniziato a scrivere i colloqui, non solo lavorativi, ma anche personali. Ma ancora più interessante sarebbe stato sviluppare la storia nel futuro, così vediamo il protagonista diventare adulto, che ci dà la possibilità di inventare scenari possibili riflettendo su come sarà il mondo, soprattutto lavorativo, che ci aspetta. Ciò è particolarmente in linea con la ‘poetica’ de Lo Stato Sociale: intrattenere ma allo stesso tempo portare alla riflessione il pubblico”.

Molti però sono gli autori che tentano di riflettere sul presente pubblicando “presunti” romanzi generazionali. Qual è, secondo voi, il maggior punto di forza del vostro libro?

“Ho visto che le persone a cui facevamo leggere il libro ridevano. Crediamo che questa sia la sua forza: riuscire a trasmettere buon umore, non fine a sé stesso ma che abbia dietro un ragionamento.

In effetti, la prima metà del libro è ‘leggera’, fa un po’ da esca per il lettore; poi, una volta che lo stai intrattenendo, l’obiettivo è aprire un mondo e andare a fondo nella riflessione sull’argomento”.

Andiamo un po’ più a fondo allora, questa generazione, come la vedete? Leggendo si coglie uno sguardo costante ai bivi del passato, a come la vita sarebbe potuta andare diversamente; ma c’è anche ansia per il futuro, per un domani difficile da “leggere”. In tutto questo, il protagonista sembra smarrirsi…

“Arturo, il protagonista, non ha la fortuna di incontrare le persone giuste con cui combinare qualcosa. Nel romanzo non mancano personaggi ‘giusti’, ma non riescono ad indurre il protagonista a fare cose ‘giuste’: sono fuori tempo rispetto alla personalità già formata di Arturo.

Il futuro lo puoi immaginare solo se hai qualcuno accanto a cui raccontarlo, e se nei momenti in cui guardi avanti e cerchi capire che strada prendere non hai nessuno con cui imboccare questa strada, alla fine resti fermo in un limbo.

C’è qualcosa di simile in ‘Alta fedeltà’ di Nick Hornby, dove la fidanzata del protagonista dice a quest’ultimo che a forza di voler tenere aperta ogni possibilità per paura di scegliere, è finito per non aver combinato nulla nella sua vita”.

Attraverso Arturo si delinea un ritratto sociale, del quale si toccano molti aspetti importanti: la sessualità, l’uso di droghe, l’università, il lavoro (e mi fermo per evitare spoiler). Manca, o comunque è appena accennata, la politica, presentissima invece nella vostra produzione musicale e nel vostro primo romanzo. Perché?

“Per fortuna o purtroppo l’autore è appassionato di politica… e ogni tanto parla in terza persona (ride).

Volendo staccare il protagonista dall’autore abbiamo evitato di inserire quella componente. La politica è un qualcosa che ti salva, è un’ancora sul presente, quindi se uno se ne interessa deve in un certo modo ‘agganciarsi’ a ciò che gli sta intorno. La scelta di non inserire un elemento politico lascia il protagonista fuori dalla realtà, privo di questa ancora, dunque in balia delle sue non scelte”.

Per concludere, non poteva mancare una domanda su questo benedetto “lavorare”. Fino a che punto il lavoro è centrale nelle nostre vite, oggi?

“Sicuramente è centrale, è anche il primo articolo della Costituzione.

Scherzando, diciamo spesso che è da 35 anni che siamo contro il lavoro. Il risultato che vogliamo raggiungere il prima possibile è l’abolizione del lavoro!

Naturalmente è una provocazione, ma serve a raccontare che il lavoro come obbligo, il vincolo di dover fare necessariamente qualcosa per poter sopravvivere, è una ‘piaga’ per la libertà individuale, per la società, per le diseguaglianze che crea questo meccanismo.

Il lavoro che invece ha la capacità di sviluppare una società per i bisogni che la società stessa esprime, è qualcosa da tutelare, è la più forte forma di inclusione e l’unico modo per creare una comunità.

Vincolarlo al salario ha reso il lavoro una cosa brutta, quando in realtà è una cosa bella oltre che importante”.

A dispetto dell’approccio ironico del libro, non ci andiamo esattamente leggeri…

Parla Alberto:Ma ho studiato sociologia io!

Dice la massima, ‘sono un sociologo, ho sempre ragione’! L’ho letto su una maglietta” (ride).

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