Il prossimo 8 febbraio, la stand-up comedy va in scena al Teatro Celebrazioni con CROSSOVER, il live show di Daniele Tinti prodotto da The Comedy Club, società che da diversi anni promuove stand-up comedy in Italia.
Daniele Tinti è tra i volti più noti della stand-up comedy italiana, con diverse partecipazioni a programmi di Comedy Central e della Rai e il grande successo del podcast Tintoria, che conduce insieme a Stefano Rapone (altro volto noto del panorama comico italiano).
In attesa di vederlo sul palco del Celebrazioni, ci siamo fatti due chiacchiere con Daniele, parlando di CROSSOVER, di Tintoria, di stand-up comedy e di tanto altro…
Mi sono preparato una domanda: come stai?
«Grazie per la citazione! Sto bene, grazie».
Mi ero preparato anche un’altra domanda: che hai fatto oggi?
«Oggi ho registrato una puntata del podcast con Luca Ravenna in cui parliamo di sport, Antenna Sport. Poi sono tornato a casa, ho pranzato; ora sto sistemando casa, poi devo scrivere un po’ di roba».
Ora che abbiamo rotto il ghiaccio, veniamo a CROSSOVER: con questo spettacolo porti a teatro le paure più profonde della gente rispetto a diversi temi di attualità, naturalmente in chiave comica. Perché dovremmo ridere di qualcosa che ci terrorizza?
«Io porto sì le paure della gente ma partendo dalle mie, che racconto naturalmente in chiave ironica – non è che vengo a piangere sul palco! L’idea è che nelle mie paure qualcuno riveda le proprie e che da questa risonanza nasca la risata.
Ridere di qualcosa che ci spaventa può avere un effetto catartico, ma non parto dal presupposto di dover generare la catarsi: il mio obiettivo è far ridere, poi ridendo su temi profondi o delicati talvolta si possono trasmettere degli spunti di riflessione e sono contento quando questo avviene. È un po’ l’accordo alla base della comicità: in cambio delle risate, il pubblico sta a sentire ciò che hai da dire».
Avendo a che fare con temi delicati e sensibili, il rischio di uno spettacolo comico è di sfociare nel politicamente scorretto; peraltro questa è una leva molto usata nella stand-up comedy. Come ti rapporti con il politically correct nel preparare i tuoi spettacoli?
«In generale credo che il politicamente corretto sia positivo: fare attenzione a ciò di cui stai ridendo e sviluppare una sensibilità verso soggetti diversi o più deboli decidendo di non ridere di loro penso sia sano e salutare. Si può fare comicità senza fare male a nessuno, e credo che questo sia un modo virtuoso di farla.
Il dibattito pubblico invece mi sembra stia andando nella direzione del “non si può più dire niente”, mentre a me sembra, specie in Italia, che ognuno possa dire ciò che vuole. Ma proprio perché tutti possono dire tutto, credo sia giusto che prima di parlare – soprattutto in un contesto pubblico – ci si interroghi su ciò che si dice».
Probabilmente una buona parte del pubblico che assisterà a CROSSOVER ti ha conosciuto tramite il tuo podcast Tintoria. Il format di Tintoria è l’intervista, l’ospite dunque ha un ruolo centrale, in più sei spalleggiato da Stefano Rapone; CROSSOVER è un one-man-show, solo tu e il tuo pubblico. Come cambia il tuo approccio dal podcast al teatro?
«Sono due forme di intrattenimento e di espressione vicine ma parallele (nel geometrico euclideo del termine, ndr). Nello spettacolo sono io a scrivere un pezzo per il pubblico, mentre nel podcast io e Stefano ci mettiamo “al servizio dell’ospite” che viene a raccontare quello che vuole come vuole. Lì non dobbiamo cercare la risata a tutti i costi: se l’ospite viene a scherzare ci andiamo a nozze, ma se ci parla seriamente noi, seriamente, lo ascoltiamo e gli rispondiamo. L’approccio è molto diverso, per il podcast studiamo l’ospite, ma poi dobbiamo essere reattivi e seguirlo».
Dunque c’è molto margine di improvvisazione… A teatro invece ti prendi qualche libertà in questo senso?
«CROSSOVER è in tour da gennaio dell’anno scorso, quindi la struttura dello spettacolo è molto consolidata, però se la serata lo richiede o se penso che possa essere divertente, in quel momento, andare in una certa direzione, allora mi prendo delle libertà. Il bello dello spettacolo dal vivo è che ogni sera è diversa».
Cerchiamo di allargare un po’ il campo visivo: quando parliamo di entertainment, quello della stand-up comedy è forse uno dei trend recenti più rilevanti, imponendosi nettamente e molto rapidamente anche sul pubblico mainstream. Come mai, a tuo avviso, gli italiani si sono accorti improvvisamente della stand-up comedy?
«In Italia credo che internet abbia avuto un ruolo centrale: la stand-up è una forma di intrattenimento anglosassone e internet ci ha permesso di vedere quei comici e ci ha invogliato a cimentarci con questa forma d’arte. Negli ultimi dieci anni in italia si sono formati diversi nuclei di comici in varie città; questi gruppi hanno poi iniziato a parlarsi tra loro creando una rete e quando la stand-up ha raggiunto un pubblico di massa, ad esempio grazie a Netflix, questi gruppi erano lì pronti a emergere.
Ora non va solo di moda seguire la stand-up comedy, ma anche di provare a farla nei tanti open mic in giro per l’Italia e questo è meraviglioso!».
Tu, invece, perché hai iniziato? È un tuo sogno nel cassetto o qualcosa che hai maturato negli anni?
«L’interesse per la stand-up l’ho sviluppato che ero già grandicello: ero in Erasmus in Inghilterra e su YouTube sono incappato nei comici anglosassoni, i vari Louis C.K., Chris Rock, Ricky Gervais – all’epoca su YouTube c’era tantissima roba che poi è stata rimossa – e me li sono divorati, li guardavo per ore! Allora ho voluto provarci anche io: inizialmente scrivevo in Inglese, poi tornando a Roma ho scritto a Edoardo Ferrario (comico e stand-up comedian romano, ndr) che mi ha suggerito di iscrivermi ad un open mic che stava organizzando – il 19 febbraio saranno 10 anni da quell’open mic – e da lì è iniziato tutto».
Qual è il tuo guilty pleasure in fatto di comicità: qualcosa che ti fa ridere anche se sai che non fa ridere?
«C’è una cosa comune a molti comici: ci fa ridere vedere un comico che non fa ridere, meglio ancora se è un tuo amico, perché sai benissimo che potresti essere tu e prima o poi capita a tutti che una serata vada male. Dentro di te sei tesissimo, sei distrutto e la reazione che ne scaturisce è una risata violenta, di pancia!
In effetti se sei sul palco e senti soltanto dei comici ridere è un brutto segno!».
Per concludere, visto che non capita sempre di intervistare qualcuno che, a sua volta, fa interviste (in riferimento al format di Tintoria, ndr), vorrei chiederti quale pensi sia una domanda fondamentale da fare in un’intervista?
«Direi “come stai?”, perché alla fine tutto parte da lì (bene sapere che la domanda fondamentale l’abbiamo fatta, ndr!). Con gli ospiti del podcast, ad esempio, trattare gli stessi argomenti oggi o a 10 anni di distanza porta a risposte diverse, perché quello che stai facendo è uno spaccato di una data persona in un dato momento, perché in un momento successivo quella persona sarà un’altra persona. “Come stai?” è la domanda che cattura la fotografia del momento».
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