“During the first act try to be silent and move your heart
During the second act try to shout and move your feet”.
(Durante il primo atto, prova a stare in silenzio e muovere il cuore. Durante il secondo atto prova a urlare e muovere i piedi)
Sono questi due pacifici diktat apparsi sul ledwall a dare inizio alla prima tappa italiana al Tpo di Bologna dello Storm and Drugs live, il nuovo tour di Dario Faini, in arte Dardust, partito dopo l’avventura sanremese.
Nonostante non fosse in gara è stato più che presente, come produttore di quattro brani eseguiti sul palco: Eden di Rancore e Andromeda di Elodie di cui ha curato anche il testo, Tsunami degli Eugenio in Via Di Gioia e Luce, la cover del famoso brano di Elisa realizzato dal rapper Rancore insieme a La Rappresentante di Lista.
Dardust infatti, oltre ad avere la sua carriera da solista, è anche, da una decina d’anni, compositore e autore per moltissimi artisti italiani, da Fabri Fibra a Luca Carboni, da Thegiornalisti a Cristiano De André.
Seduto al pianoforte, dà il play alla prima parte di quello che si intende subito essere più che un semplice live, accompagnato da altri due musicisti, Vanni Casagrande e Marcello Piccinini.
Luce e musica sono l’una calibrata con l’altra; ha inizio la parte introspettiva e intima del live, in cui a raccontarsi e dialogare col pubblico sono proprio questi due elementi, il buio a fare da arbitro. Sonorità soft e un sound che invita a rallentare e meditare, poi una danza ritmica di synth, percussioni, drum machine ed effetti visual, sincronizzati con i movimenti dei musicisti. Ed ecco che, nella seconda parte, il sound cambia quasi completamente e la parata sonora esplode e diventa potenza ritmica, virando verso un sound più squisitamente elettronico, con i bassi a fare da padroni.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio lisergico nell’immaginario creativo e musicale di Dardust, uno spettacolo contemporaneo e sperimentale ma con la bussola della tradizione; spettacolo che quasi si potrebbe definire d’avanguardia, durante il quale si viene rapiti e poi lasciati vagare in un cosmo ignoto trasportati da sonorità quasi aliene.
Ispirato all’ultimo album S.a.d. Storm and Drugs, registrato a Edimburgo e uscito per Sony Music lo scorso 17 gennaio, terzo capitolo musicale dopo 7 e Birth nati rispettivamente a Berlino nel 2015 e a Reykjavik nel 2016, in questo show la parola-chiave è ancora una volta “viaggio”. Viaggio durante il quale l’album è venuto alla luce, viaggio di sensi e sensazioni tradotte in musica ma anche viaggio nella galassia immaginativa di un unico artista, tutti elementi di rara presenza nei live.
Su quel palco ci sono l’estro e l’estetica del pianista, del compositore e del produttore che è Dario Faini, ma anche il carisma performativo del suo alter ego Dardust che osa e sublima sul palco la sua personale visione di musica, una fusione d’insieme delle sue influenze artistiche, presentate attraverso la messa in scena di tutta l’esperienza maturata in questi anni che riesce a sprigionare in una tempesta di carica espressiva nella performance.
Di fatto, più che un live vero e proprio, quello di Dardust è la trasposizione in spettacolo di un credo musicale eclettico ben definito, accompagnato da effetti visual, animazioni distopiche e fantastiche di creature umane e animali, mandala di colori, caleidoscopi e virtuosismi di luce quasi “barocchi”, uno spettacolo in cui anche l’acqua gioca la sua parte.
Un live impostato su una playlist di brani che diventano porte d’accesso per entrare in contatto con la sua immaginazione, con la sua idea di musica e col suo ego artistico, un’immersione musicale e visiva che lascia la voglia di continuare il viaggio, il suo e di chi lo ascolta, in quasi due ore di pura evasione.
Proprio come il suo pubblico, Dardust è lì, silente e assorto nel suo mondo e segue i due pacifici diktat apparsi all’inizio. Proprio come il suo pubblico.
L’artista così ci racconta in musica come si vive nel suo mondo di fusione a metà tra classicismo ed elettronica, tra antico e moderno. Quel mondo di cui è proprio lui il demiurgo indiscusso.
“Se fossi una canzone di David Bowie, quale saresti?”.
Ho incontrato Dardust nella hall dell’hotel il giorno del concerto e ha risposto a questa e ad altre domande. Abbiamo parlato dell’influenza della psiche sulla creatività, della sua idea di musica e del suo sentirsi a metà tra il giovane Werther e Mark Renton di Trainspotting.
Partiamo dal tuo nome d’arte, Dardust, che è la fusione tra il tuo vero nome Dario e il nome d’arte di uno degli alter ego di David Bowie, Ziggy Stardust. Ecco, se fossi una canzone di David Bowie quale saresti?
“Bella domanda, mi hai preso alla sprovvista! Ce ne sono un miliardo…
Ripassando velocemente tutti i dischi, il pezzo che mi è venuto in mente e che mi arriva subito immediato è ‘The Secret Life of Arabia’, che è un pezzo di Heroes, perché è un brano dove c’è ‘il clap’, ci sono tante cose, c’è un certo tipo di giro di basso, c’è un certo tipo di fascinazione esotica, che forse è una cosa che a livello musicale sto vivendo in questo periodo. Quindi il pezzo di adesso potrebbe essere questo, è un brano non conosciutissimo che invito ad andare a scoprire”.
Hai detto in più interviste che, specie per l’ultimo disco, il cui nome è riprende il movimento culturale tedesco dello Sturm und Drang, ti ispiri in particolar modo a due figure della letteratura, il giovane Werther di Goethe e Mark Renton di Trainspotting. Personaggi sicuramente non comuni e sopra le righe. Cosa vi accomuna e quanto sei diverso da loro?
“Sicuramente nel giovane Werther, al di là degli ideali dello Sturm und Drang, mi sono identificato durante una tempesta che stavo vivendo chiudendo una relazione. Ero impossibilitato a vivere una dimensione sentimentale perché non dipende da te, non hai il controllo della cosa. Ti trovi di fronte al non avere il controllo e questo tipo di impotenza mi ha avvicinato alla sua figura. Ovvio che l’epilogo mi ha poi portato su Mark Renton perché simbolicamente lui alla fine scappa con il bottino. Mi piaceva l’idea perché alla fine da una tempesta si può uscire con il bottino, con l’oro simbolico che questa esperienza ti dà.
Non a caso, finita questa relazione, nella mia carriera c’è stata Soldi, Mahmood e si sono aperte tantissime cose nella mia vita in maniera strapositiva. È stata una sorta di benedizione, era perfetto: sono partito da Werther per poi diventare Mark Renton. Ovviamente c’è tutto il lato stilistico e musicale degli anni ’90 che ha accompagnato un po’ la generazione chimica e che poi nei miei live e nel disco si evince”.
Parlando di personaggi come Werther vissuti secoli fa, se potessi tornare indietro nel tempo in quale epoca ti piacerebbe essere nato e vissuto?
“Beh, sicuramente a fine Settecento, l’ultimo decennio. Mi piacerebbe vivere l’inizio del Romanticismo, il pre-Romanticismo potrebbe essere un bel periodo, ma anche il Barocco sul lato musicale e stilistico potrebbe essere interessante”.
Il tuo disco si sviluppa su città diverse. Ci racconti un aneddoto?
“Quando ho scritto Sublime, il primo singolo, stavo in questo cottage a nord di Londra e c’è stata una tempesta di neve che non si vedeva da anni. È stato magico perché io ero in questo cottage bellissimo, tutto in legno, molto old style a livello anche di arredamento, quindi sembrava davvero di essere in pieno Ottocento, con tutta quella neve fuori e quel silenzio incredibile. Credo sia stato uno dei momenti più belli di questo disco. Intenso, magico”.
Molti forse non sanno che tu hai anche una laurea in psicologia. Mi chiedo, quanto la psicologia e la psiche hanno influenza sulla tua musica?
“Siamo frutto della psiche oltre che di tante altre dimensioni, oltre a quella cognitiva c’è quella emotiva e tante altre cose. Senza andare troppo nel dettaglio, credo che sia fondamentale perché anche nello studio musicale, nella scrittura, nella creatività, la psicologia ti aiuti a empatizzare con chi ascolta, quindi se hai questo strumento puoi dominare meglio, puoi avere il controllo nell’esperienza che l’altro può vivere.
Quindi hai un’arma in più, in teoria. Senza tralasciare però il fatto che quello che viene fuori da te debba essere fondamentalmente molto incosciente ed emozionale, come se ci fosse un diamante grezzo che arriva. Quello è fondamentale, la prima scintilla deve essere l’emozione pura, poi c’è tutto il processo cognitivo ‘di artigianato’ della canzone che ti può aiutare a dare a chi fruisce un’esperienza musicale molto ricca, che è controllare quest’esperienza”.
Concludendo, parliamo di psiche e creatività e non posso non chiederti quanto hanno peso anche le altre arti sulla tua musica e sul tuo essere Dardust.
“Mi piacerebbe tanto dire la letteratura ma in questo periodo sto leggendo pochissimo. Sicuramente i film sono una materia prima fondamentale, anche perché Dardust è sempre una colonna sonora di un film che io immagino, che non è poi concreto e reale perché non c’è. Però mi piace pensare sempre che i suoni siano un commento a delle immagini, a dei film che vivo. E ogni esperienza al cinema mi arricchisce sotto questo punto”.
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