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“Non sono in fuga da niente, sono alla ricerca”. Davide Shorty si racconta, da X Factor all’incontro con Silvestri

05-02-2020

Di Salvo Bruno
Foto di Beatrice Belletti

Le prime esperienze musicali in Sicilia e il trasferimento a Londra, dove vive tutt’ora, la fondazione della band soul Retrospective for Love, collaborazioni con artisti stranieri, l’approdo in finale alla nona edizione di X Factor e poi l’arrivo del primo disco da solista, Straniero.

Senza dimenticare la presenza nell’ultimo disco di Daniele Silvestri nel brano Tempi Modesti e il sodalizio artistico con l’ensemble dei Funk Shui Project, con i quali ha all’attivo già due album.

Questo e altro compone il variegato caleidoscopio che è Davide Shorty (nome d’arte di Davide Sciortino), voce dal timbro soul che abbraccia sonorità jazz, rap, funk e qualche eco di black music.

Un artista che è al tempo stesso beatmaker, cantautore e rapper, che sa il fatto suo e che ha saputo crearsi un suo stile e una sua musica mettendo a frutto anni di gavetta e varie influenze musicali in melodie e testi personalissimi e introspettivi. E poi, la volontà di trovare un senso alla sua voglia di fare musica, la scrittura dei testi come percorso, la dislessia e il rap come soluzione, l’ossessione per le rime e per i beat, tutto ciò per approdare alla piena consapevolezza e alla chiarezza della persona e dell’artista che è adesso.

L’ho raggiunto e intervistato a fine concerto nel backstage del Locomotiv Club.

In un verso di Visione, brano dell’ultimo album, ti autodefinisci “tipico alternativo, lirico ed istintivo / limito il mio cinismo, è un carattere distintivo”. Chi è Davide Shorty?

“Oh, shit! Beh, Davide Shorty è un ragazzo di Palermo che a un certo punto si è rotto le palle e se n’è andato a Londra perché a Palermo gli dicevano che le cose non le poteva fare e a Londra ha capito di poterle fare, invece. Quando ti senti ripetere tante volte che delle cose non le puoi fare, non le sai fare, anche se tu in realtà vuoi fare di tutto per poterle fare, poi ti convinci che non le puoi fare.

Quindi io mi sento un po’ un sopravvissuto, sicuramente un privilegiato perché ho il vantaggio di poter fare quello che amo come lavoro. E poi sono una persona semplice, non ho niente di assurdo, non credo di essere chissà che cosa. I’m not a big deal, come si direbbe. Sono anche un dislessico, ma dopotutto secondo me è una cosa bella, la dislessia, è un ostacolo che va superato”.

 

Lo era anche Newton, tra gli altri.

“Sì, tantissimi lo sono, anche tra i grandi. In realtà la dislessia è una cosa che è lì davanti e ti dice ‘Mi devi superare, devi trovare un modo di convivere con me’. Io ho usato il rap, ad esempio.

Quando devo leggere, io continuo a rileggere una pagina anche tre, quattro volte finché non ne capisco il senso. Per me, ecco, Davide Shorty è anche una persona estremamente testarda. Posso essere un gran rompicoglioni però sì, sono anche il ‘tipico alternativo’, nel senso che faccio quello che è controcorrente. Nel senso, mi dici di fare una cosa e io faccio tutto l’opposto, di solito, a meno che non mi renda conto che sia la cosa giusta da fare”.

Vivi tra Londra e l’Italia. Vivendo la musica italiana anche da fuori, ti senti più “naufrago nella realtà” o un classico cervello in fuga?

“Bella domanda! Non sono in fuga da niente, sono alla ricerca. Non sono neanche un naufrago, lo ero quando non mi volevo bene. Sto imparando a volermi bene quindi sono alla guida, assolutamente al timone, se parliamo di naufragare. Sono alla ricerca di tante verità, di parole, sensazioni, emozioni, sentimenti. Dovunque senta che debba andare per trovarle, andrò. Ma non sono in fuga da nulla”.

Trova le differenze. Salvo, intervistatore (sinistra) e Davide Shorty, intervistato (destra)

Qualche anno fa ti sei classificato in finale a X Factor. Cosa ti ha dato quell’esperienza e cosa è cambiato da allora ad oggi?

“Mi ha dato la consapevolezza che i talent show sono estremamente sbagliati insieme a quella che non mi volevo bene, che mi odiavo. Mi ha fatto sì conoscere tante belle persone e fare tante belle amicizie, mi ha fatto analizzare me come artista, mi ha fatto studiare e messo in contatto con tanti professionisti, ma mi ha anche lasciato un anno e mezzo di depressione sulle spalle, che però è stato necessario per portarmi dove sono ora, per essere la persona che sono adesso.

Quindi, se prima ti avrei detto che è stato il più grosso errore che ho fatto nella mia vita, adesso ti dico che è stato necessario per essere la persona che sono oggi e sono grato di tutto ciò che è successo, dalla prima all’ultima cosa, anche delle parti più buie e negative che ne conseguono, ecco”.

Qui la videointervista sull’ultimo progetto insieme ai Funk Shui Project

 

Dopo X Factor, anche Sanremo un giorno?

“Non te lo so dire. Forse, magari, non so. Se capita, se ho il pezzo giusto, se mi capita di creare il link, se l’universo lo vuole succederà, se non lo vuole, non succederà”.

 

A proposito di Sanremo, lo scorso anno vi ha partecipato anche Silvestri che ti ha voluto nel suo ultimo album nella traccia Tempi modesti.  Raccontami un po’ com’è nata la canzone e la collaborazione.

“Io sono andato a trovare, sotto suo invito, Daniele e la sua band a Favignana, dove lui stava registrando e scribacchiando il nuovo disco. Lì c’era anche Daniele Fiaschi, il chitarrista dei Funk Shui, che lo è diventato proprio grazie a quell’esperienza a Favignana. Gli ho fatto ascoltare il disco e lui ha detto ‘Se cercate un chitarrista, io ci sto’ e quindi io l’ho chiamato.

Daniele invece stava suonando questo pezzo qui che aveva appena finito di registrare e io avevo scritto una strofa in aereo. A un certo punto mi sono messo a rapparla, a improvvisarla sul pezzo e lui mi fa ‘ma questa roba è una bomba, registrala!’. Così l’abbiamo registrata, aggiustata e sistemata ed è diventato il pezzo che è diventato. La produzione e l’arrangiamento sono tutti suoi, io ho semplicemente prestato la mia penna e la mia voce per quella parte lì, oltre al mio falsetto per alcuni cori. Lavorare con Daniele è sempre una meraviglia perché c’è tanto da imparare da lui”.

Quella di stasera non è la prima volta qui a Bologna. Anzi, so che in passato l’hai frequentata tantissimo. Cosa significa per te questa città?

“Non voglio dire che lo è in assoluto, ma Bologna è probabilmente una delle mie città italiane preferite. La sento un po’ come casa perché fin da quando ero più piccoletto, quando avevo intorno ai 14 anni, ho degli amici qua e quindi sono venuto sempre spesso.

Poi ho avuto modo di completare l’album ‘Terapia di gruppo’ con i ragazzi, che si sono trasferiti qui. Ho scritto tutta ‘La Soluzione’ qui perché tra una data e l’altra, quando io non potevo tornare a casa a Londra, rimanevo a Bologna dai ragazzi.

Quindi ho avuto modo di conoscere le strade di Bologna, di camminare, guardare, goderne la storia anche grazie a Riccardo, un mio amico, soprannominato Tricky, un bolognese doc che mi ha fatto scoprire tante cose quando ero più piccolo. L’ho conosciuto a 14 anni in una vacanza in un campus sportivo, dove lui era uno degli istruttori di tennis. Insomma, poi sono venuto a trovarlo e lui mi ha fatto scoprire Bologna, mi ha raccontato un po’ delle storie, mi ha fatto girare, me la sono vissuta con gli occhi di una persona del luogo e me ne sono innamorato follemente”.

 

Tu sei un beatmaker ma anche un cantautore e rapper. Per concludere, come nasce un testo di Shorty?

“Sono contento che tu abbia detto prima beatmaker perché molto spesso mi considero molto più beatmaker che rapper o cantante, perché fare i beats e prendere e tagliare campioni è la mia ossessione.

Un testo di Davide Shorty di solito nasce su un beat, prima lo ascolto poi scrivo il testo. Nasce anche dall’ossessione di far combaciare le cose, per me una parola deve rimare con tutto, cioè una parola deve rimare almeno una volta con un’altra parola. Per esempio, se ti ascolti una qualsiasi strofa, non so, tipo ‘Vorrei che tutto fosse vero come Ballarò, anche il dolore più leggero, quindi ballerò’, vedi che gli accenti rimano.

Nascono dagli schemi ma anche dalla libertà d’espressione perché per me lo schema, cioè il fatto di avere il limite nella rima, deve essere la libertà di poter usare quelle parole in un modo tale che riesca ad esprimere perfettamente il concetto e l’immagine che ho in testa. Prima lo devo vedere, e nel momento in cui lo vedo lo scrivo. Non so spiegartelo in maniera più dettagliata, perché inizio a scrivere delle cose che mi girano in testa e poi da lì ogni verso, ogni parola, ogni sillaba mi conduce da un’altra parte.

Ogni testo è un percorso, quindi mi lascio guidare dal suono delle parole, dalle immagini, dal suono delle rime e spero che poi alla fine abbia un senso quando lo rileggo. E di solito ce l’ha, poi sì, ci sono delle volte in cui no. Ma so che in un modo o nell’altro sì, c’è”.

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