Enrico Brizzi non ha bisogno di presentazioni. Emerso nel panorama letterario contemporaneo con il romanzo d’esordio Jack Frusciante è uscito dal gruppo, la sua è una produzione che spazia dai romanzi di formazione e di ribellione anarcoide, ai pulp, alla letteratura di viaggio, passando anche per esperienze ibride tra musica, “da ragazzo volevo fare il musicista”, mi spiega, e letteratura. Sullo sfondo non solo Bologna, ma chilometri di paesaggi, italiani ed europei, che da camminatore esperto, ha percorso ed esplorato, rigorosamente a piedi.
In occasione dell’uscita de Il Cavaliere Senza Testa (Ponte alle Grazie), l’abbiamo raggiunto.
Inevitabile domandargli quale sia il fil rouge che si snoda in un’esperienza così eterogenea.
“La libertà: dentro la pagina impari a conoscere più stili; a livello di produzione in generale, ti prendi la libertà di non essere quello che scrive solo harmony o storie di guerra. Se mi diverte io voglio essere tutti questi. Non è una decisione figlia dell’ego, ma dell’ammirazione per chi l’ha fatto prima: Tondelli non ha scritto un libro uguale all’altro, eppure mi sembrano tutti molto sinceri. Che legame c’è, a ben vedere, tra il punk di provincia di ‘Altri Libertini’ con la descrizione angelicata e demoniaca della passione carnale e dell’amore omosessuale di ‘Camere Separate’, o con un romanzo commerciale anni ’80 come ‘Rimini’?
Osare qualcosa di nuovo perché è lì che vuoi andare non perché te lo consiglia l’editore; seguire con sincerità le storie che si presentano esattamente come facevi a 18 anni. Allora erano tutte dello stesso tipo, ora sono diverse, ma il motore che fa andare avanti tutto questo è sapere che stai facendo ciò che ritieni giusto ed entusiasmante; del resto, quando il rock ‘n’ roll ti possiede non puoi farci niente!”
La metafora musicale ci aiuta anche a capire meglio la personale concezione di scrittura di Brizzi, secondo cui tolti gli aspetti di superficie, resta un intenso lavoro di artigianato, ovvero il tempo che si dedica ad un’arte, quanto “le si vuole bene” fa la differenza su quanto essa ti ripagherà: “se provi poco, se provi senza preoccuparti di accordare bene, eccetera, suoni di merda! La scrittura è identica”.
Qual è allora il valore dell’ispirazione? “Poca roba”, stando a Brizzi, “un’idea può venire a chiunque, mentre fai il bagno o pedali in bici. Dall’ispirazione a creare un organismo narrativo complesso come un romanzo o un disco la differenza è il lavoro, la differenza è farlo davvero! Passare, in altre parole, dal farsi le seghe al sesso autentico (ride)”.
Il Cavaliere Senza Testa è l’ultimo dei suoi lavori. Come in opere precedenti, dietro il testo c’è un viaggio, ça va sans dire a piedi, che l’autore percorre insieme alle giovani figlie attraverso i luoghi di famiglia, le terre d’origine: dodici tappe da Pieve di Cento al Lago Scaffaiolo.
È da leggersi in coppia con Il Sogno Del Drago (Ponte delle Grazie): “uno è il b-side dell’altro”, spiega. Il Sogno del Drago si gioca da Torino a Finis Terrae ed è il lungo viaggio di un uomo adulto verso qualcosa che in antichità rappresentava la fine del mondo. All’opposto, Il Cavaliere Senza Testa è un viaggio emiliano sulla breve distanza, il viaggio di un padre a ritroso verso le proprie origini; “il paradosso è che andando alla ricerca delle radici in realtà ti rivolgi al futuro: cerchi di trasmettere qualcosa che non potrà raccontare nessun altro se non te”.
Si dà voce alla storia familiare, che affrancandosi dalla storia con la “s” maiuscola, acquista quel valore di intimità e umanità tipico del particolare che si sgancia dal generale. Storie proposte come “antidoto all’appiattimento dell’è tutto qui e adesso”. Prosegue Brizzi:“quando avevo la loro età (delle figlie, ndr) passavo il tempo a casa dei miei nonni ad ascoltare le storie della Seconda Guerra Mondiale e restavo a bocca aperta di fronte ai racconti della Bologna del ’77 o del ’68; era normale nutrirsi delle storie del passato. Oggi la vertigine è rendersi conto che i ragazzi (e anche noi quando ci attacchiamo troppo ai social) rischiano di vivere in un presente eterno senza profondità né prospettiva”.
Alcune di queste storie del passato, Brizzi ce le racconta, e dall’archivio di famiglia emerge l’immagine, bella e sincera del nonno materno dell’autore, uno che di mestiere “fava le case”, come dicono in Amarcord, immaginato sulle impalcature a guardare l’Appennino, unico argine allo spazio altrimenti infinito della pianura padana e unica cosa da guardare in quello spazio piatto così uguale a sé stesso, pensando ad andare lassù perché nessuna montagna è uguale all’altra. “Lui vedeva le montagne come noi pensiamo alla promessa di una vita migliore” racconta Brizzi.
Dalle pianure del nonno, all’arrivo a Bologna, “arrivandoci nella maniera filologicamente corretta lungo il Navile”, poi a sud della città, tra colline e montagne: “la Via degli Dei, che ho percorso la prima volta a 20 anni con due amici in forma più o meno pionieristica. Appena uscita la prima pubblicazione mi dissi ‘si può andare fino a Firenze a piedi e non ci andiamo?’; e lo facemmo in tenda perché non c’erano posti dove dormire lungo la via, là dove oggi ci sono un sacco di Bed & Breakfast”. I paesaggi emiliani scorrono lentamente lungo questo cammino diretto alle origini, in un libro descrittoci, ricorrendo ancora una volta alla metafora musicale, come “composto per voce e chitarra acustica, con alcune partizioni elettrificate e, dietro, una batteria essenziale; forse anche qualche campana, oltre alle pelli. Il basso non è un basso elettrico, ma un contrabbasso o un basso acustico: è il mio disco country”.
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