“Quando ho scritto questo pezzo ero proprio NO… e poi ho capito, se sto male, va bene lo stesso, non dobbiamo sempre essere iper-funzionanti, e mi fa stare un po’ meglio pensarla così, spero che possa aiutare anche qualcuno la fuori”.
Adele Nigro, leader del progetto sonoro Any Other, sta accordando la chitarra, intrattiene il pubblico del Covo Club e interrompe così l’attesa silenziosa tra un pezzo e l’altro, un po’ suo malgrado perché ad Adele non piacciono i discorsi forzati sul palco. Per introdurre ballate soliste come Capricorn No e Mother Goose si tratta di una prefazione accurata per un tema ricorrente nei suoi testi ed attuale nel clima sociale e nell’industria, di cui mi aveva parlato nella chiacchierata che abbiamo fatto in backstage, qualche ora prima del live.
Sul palco Adele è bellissima, la sua bellezza sta nella purezza e voracità delle sue canzoni, in una performance che ipnotizza l’audience, il finger-picking delicato e svelto che diventa artiglio e un pugno stretto mentre urla “I asked you fuck me as hard as you can, I wouldn’t feel anything” sulla traccia Walkthrough e ancora in Sonnet#4 “Do something, please. I wrote best songs and I wrote them for you! Where the hell have you been?”.
Non sono i tecnicismi, i cambi di chitarra volanti tra acustica ed elettrica, i sorrisi sul palco (Adele ride un sacco), ha una maturità artistica impressionante, soprattutto considerati i suoi 24 anni, e Two, Geography, uscito a settembre 2018 con 42Records, è il suo secondo album. Questo livello di intimità ed intensità sarà anche un’anomalia per la scena musicale italiana eppure ricordano cantautrici iconiche dagli anni 90 di Alanis Morissette a Julia Holter, passando per Mitski, Waxahatchee, fino al Brit folk di Laura Marling, seppur con ritmiche, tempi e arrangiamenti diversi.
Nomi questi che sono emersi quando sedute su un divano le ho chiesto di darmi una una canzone per la felicità, una per la tristezza ed una per il futuro. Lei mi ha risposto:
“Per il futuro ‘Resolution’ di Coltrane, che ha uno dei temi più commoventi per quanto riguarda la storia della musica e mi fa piangere. Pelle d’oca quando la sento, il tema è quasi malinconico ma in realtà pieno di forza di speranza. Per la felicità, Julia Holter, il singolo ‘I shall love 2’, un inno all’amore cosmico, collettivo, sociale, perché bisogna essere felici e amarsi. – Ricordo che Adele è stata anche paragonata alla Holter, e lei risponde ridendo – Eh si! Infatti sono qui che scodinzolo!” Per la tristezza, direi un pezzo di Mitski, ‘A Burning Hill’, pezzo di chiusura di Puberty, triste ma incredibile”.
A proposito di gente incredibile, tra le tue numerose collaborazioni, tra cui il tour con l’Infedele Orchestra di Colapesce, Myss Keta e Andrea Poggio, la produzione di Generic Animal, Il lavoro con Halfalib, c’è qualcuno che ti ha dato qualcosa in più? Anche solo un consiglio, che ti ha segnata e tutt’ora vale?
“Mi rendo conto che sia abbastanza scontato, devo dire Marco, il ragazzo con cui suono da 4 anni ormai, in formazione live al piano, con cui ho fatto il disco, con cui faccio tutto assieme. Tra me e lui c’è questa costante discussione aperta, passiamo le ore a farci i cosiddetti pipponi sul suonare, su cosa vuol dire fare musica, perché facciamo musica e perché la facciamo in un modo e perché in un altro. Siamo costantemente in questo stato di faccio una cosa, poi ci aspettiamo, ci superiamo. C’è proprio questa conversazione che continua ad andare avanti e credo che sia la persona che mi dà più stimoli in generale, ed è bello perché ce l’ho vicina”.
Adele è polistrumentista, scrive i suoi testi, musica, produce. Sembra catturata in un suo universo, ma non è così. Mi spiega:
“Ricordo proprio il momento in cui ero a casa di Marco, seduti a tavola e gli ho detto: io questo disco devo farlo da sola. Nasce dal desiderio e dalla volontà di dimostrare agli altri e me stessa che potevo farcela. Allo stesso tempo c’è il supporto tecnico e psicologico di Marco, che per me è parte imprescindibile del fare musica. Vedo la musica e il suonare come un mezzo per arrivare e stare vicino alle persone”.
Penso ai tuoi testi, molto intimisti, crudi, personali, mi chiedo scrivi per te o scrivi per gli altri? E la musica come mezzo per arrivare alle persone, in quale parte del processo di creazione del disco si colloca?
“Direi che sono due fasi diverse del tutto, nel momento in cui sono a casa mia e scrivo, lo faccio perché sento l’esigenza di farlo, chiamala esperienza catartica, modo di processare i propri sentimenti, le proprie emozioni. Ma quando decidi di mostrarlo e farlo uscire, in quel momento smette di essere una cosa tua. Per me fare un disco è prendere qualcosa di tuo e darlo agli altri, al di là del fatto che poi gli altri lo vogliano o meno”.
È una consapevolezza a cui sei arrivata adesso? Dal tuo primo progetto, The Lovecats, passando poi per il primo disco con Any Other Silenty, Quietly, Going Away nel 2015, anche il tuo sound è cambiato.
“Sì, era il 2011 (con le Lovecats), ero minorenne e non suonavo niente, cantavo e basta all’inizio. Banalmente ricordo il passaggio al primo disco di Any Other, proprio ho detto: okay adesso voglio fare un disco indie-rock, in realtà visto da fuori con un quadro un po’ più ampio lo vedo come un flusso naturale delle cose che si evolvono, semplicemente ho voglia di imparare cose nuove, è il processo di crescita di un musicista. Non penso che avrei fatto questo disco se non avessi cominciato a suonare il sassofono e fare altri tipi di ascolti ed esperienze, anche suonare per altre persone, secondo me è come crescere, ti vengono i peli sulle gambe e poi i capelli bianchi, così cresci e senti il bisogno di fare musica diversa”.
È contenta di suonare di nuovo a Bologna. “Ero già stata qui con il disco vecchio, ormai 3 anni fa e poi con Colapesce. È una città dove mi piace sempre venire, è molto diversa da Milano, dove mancano i locali in città per scoprire band di medie dimensioni. Personalmente faccio fatica ad andare ai concerti grandi con migliaia di posti di capienza, così come faccio fatica ad andare ai festival”. Diverso è stato suonare al Primavera Sound 2018, “da musicista è proprio perfetto, godi dei concerti in modo diverso, ed era la mia prima volta lì in assoluto”, dice.
Adele ascolta genere disparati, dal jazz all’ambient ma anche reggae, tanto chamber-pop, tutto ciò che è pop o indie-rock ma non lo è, come St. Vincent, per citarne una. A sua detta, non è “una fan da foto e autografi” e quando va ai concerti non fa neanche le foto con il cellulare, dice “sono molto introversa nella fruizione della musica”. Però ricorda episodi di genuino fangirling con Sadie Dupuis degli Speedy Ortiz e quella volta che ha detto a Doug Martsch dei Build To Spill “Oddio che bomba, mi piacciono un sacco i vostri dischi!”.
Nonostante Adele stia ricevendo attenzione, si muove nella nicchia indie, e vede chiusura nel mercato e nell’industria musicale italiana. “Mi sembra che fuori esista ancora una via di mezzo tra il provare nel garage e fare l’Alcatraz” con eccezioni come IoSonoUnCane, “uno dei compositori più potenti al momento in Italia”, ed alle realtà come Zuma, festival Milanese di jazz, improvvisazione, minimalismo con influenze d’altri paesi.
“Penso sia un problema di educazione alla musica, parlo anche di chi fa musica”. L’educazione musicale di Adele è sentimentale, deriva dal contatto diretto con le persone “con cui avere scambi, anche emotivi e affettivi, di connessione”. Continua: “sembra che siamo tutti un po’ molto concentrati sul nostro giardinetto, un po’ ego-riferito: io faccio questo, ottengo riconoscimento per questo quindi mi interessa questo”.
Ti senti di avere una sorta di responsabilità, nel dover dire qualcosa?
“Pensavo di si, sembra una cosa da vecchio burbero, però da quando non ho più facebook, mi sono resa conto del fatto che purtroppo certe cose hanno più importanza se le dici sui social, di quanta ne hanno quando le fai nella vita di tutti i giorni. Sto pensando al caso di molestie sessuali di Supernova a Genova, cose di questo tipo. Le persone con cui lavoravo si sono mosse nella vita reale e non hanno fatto dichiarazioni pubbliche. Secondo me è giusto tutelare le vittime. Da quando poi è venuta fuori la cosa da parte di Fiumani, ho visto che c’è stato questo rinculo di accuse su chi non aveva parlato e fatto post su fb, e io pensato: ma è così importante? Non so, mi dà noia”.
Già che siamo in argomento e in clima #metoo, te lo devo chiedere, come artista donna e giovane, ti senti ascoltata, rappresentata da questa industria? Ci vuole più del coraggio o dell’adattamento?
“È strano, in questo momento della mia vita sono nella posizione di potermi anche dimenticare di essere una donna, nel senso che comunque, ho guadagnato un po’ di rispetto, e se mi capita di incontrare qualcuno che mette le mani avanti perché sono una donna, le mani avanti le metto io. Da una parte mi sento di dover sfruttare la posizione in cui sono per continuare a parlarne, dall’altra a volte ho la sensazione che si finisca a fare della pornografia della sofferenza e discriminazione. Vorrei che fossero gli artisti uomini a parlarne, che fosse chiesto a loro che posizione hanno, non solo pubblicamente ma nella loro vita privata, supportate le donne con cui lavorate? Le donne con cui state? Perché se no non serve a niente”.
Sei sempre stata molto aperta sulla tua depressione, perché pensi che sia ancora così difficile parlarne, soprattutto in Italia?
“Penso che sia ancora uno stigma, dovuto probabilmente ad una questione educativa del fatto che i panni sporchi si lavino a casa, e c’è sempre un impegno sociale dichiarato ma che poi di fatto non rispecchia la vita privata della persone. Sembra che pubblicamente si possano dire certe cose ma poi in realtà ci sia ancora il terrore, c’è una visione distorta sulla depressione, manca ancora dell’informazione”.
Non sa dirmi se la musica sia stata una fuga o una cura, “forse entrambe o nessuna delle due”.
Prima di andare al sound-check le chiedo dei suoi futuri obiettivi, e risponde “mi piacerebbe scrivere musica per immagini, sperimentare e avventurarmi in territori che non siano banalmente del disco con le canzoni, spero di riuscire a farlo in qualche modo”.
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