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“Figli delle stelle”. Senza Bologna, il Kinki non sarebbe stato il Kinki

23-12-2025

Di Micaela Zanni

Non dormivamo mai. Eravamo sempre in giro, assetati di vita e affamati di scoperte. Come potevamo dormire, del resto? Ovunque ti giravi cerano cose da fare, situazioni da vivere, persone da incontrare. Cera una Bologna che non voleva – e forse non poteva – stare ferma.

La rubrica Figli delle stelle” nasce da lì. Dalla voglia di raccontare a chi non cera cosa significava vivere in questa città tra gli anni Ottanta e i primi Duemila. È un viaggio nella Bologna che ho vissuto da dentro, come testimone privilegiata della sua scena notturna, culturale e musicale grazie al Kinki, uno dei club più iconici della città. Il mio club. Un posto che era molto più di una semplice discoteca: era un osservatorio, un laboratorio, un microcosmo.

Fino a qui abbiamo attraversato alcuni momenti simbolici: la partecipazione a Domenica In, l’aneddoto con David LaChapelle, la storia del locale dal 1958, anno di apertura, fino alla sua consacrazione come uno dei club house più importanti del circuito.

Ma c’è una cosa che va detta con chiarezza: il Kinki non è diventato un riferimento del clubbing italiano per caso.
Il Kinki è nato ed è cresciuto perché era a Bologna.
Nel cuore di una città che tra gli anni Sessanta, Settanta e soprattutto Ottanta è stata un laboratorio sociale, estetico e musicale irripetibile.

Il centro storico era il cuore pulsante di movimenti e tendenze. Un centro vissuto a ogni ora del giorno e della notte. Sicuro, ordinato, eppure profondamente rivoluzionario. Era il luogo dove tutto accadeva.

Negli anni Sessanta, quando iniziava a prendere forma il mito dei Biasanòt, termine dialettale con cui a Bologna si indicavano i nottambuli, esistevano tappe obbligate che scandivano le ore dopo il tramonto. La più celebre era il bar Modernissimo, dove oggi sorge il cinema: un punto di ritrovo costante per musicisti, creativi e anime insonni. Si trovava quasi all’angolo tra via Rizzoli e Piazza Re Enzo, nel pieno del flusso umano che attraversava il centro a qualsiasi ora.

Non a caso, quell’angolo è sempre stato chiamato bonariamente dai bolognesi l’angolo dei cretini.  Era il luogo dove le ragazze davano finti appuntamenti ai ragazzi, che restavano lì a guardarsi intorno sperando di vederle arrivare. Loro, nascoste poco più in là, se la ridevano. Dagli anni Ottanta in poi questa dinamica verrà più laicamente definita bidonare, ma l’aneddoto resta un  perfetto esempio di goliardia bolognese.

Negli anni Settanta, invece, il clima era quasi schizofrenico.
Da un lato c’era il buio: gli scontri di piazza, i carri armati in centro, la tensione era palpabile ovunque.
Dall’altro, un sottosuolo creativo che ribolliva.

Nel 1971 apre il DAMS. Nello stesso periodo nasce la prima scuola di musica elettronica al Conservatorio. Fa la sua scena anche la discoteca Ciak, dove dj Miki anticipa tecniche di mixaggio e importa brani sconosciuti da oltremanica e dagli Stati Uniti. Primati italiani che segneranno per sempre la città e la porteranno, nel decennio successivo, a diventare uno dei luoghi culturalmente più avanzati del Paese. E la musica ne sarà l’espressione più evidente.

Nel suo sottosuolo Bologna non smette mai di fermentare. È una città che vive sotto la superficie. Le cantine trasformate in sale prove e gli studi di incisione improvvisati, le osterie dove cantanti e cantautori scrivono canzoni davanti a bicchieri di vino rosso, locali in cui si alternano concerti dal vivo e musica sparata fino a notte fonda. Bologna è un ecosistema informale, disordinato, vitale, in cui le idee circolano libere e si contaminano. È in questo magma creativo che prendono forma band come gli Skiantos e i Gaznevada, capaci di rompere i codici, mescolare musica, ironia e provocazione, e dare voce a un’attitudine che qui non si era mai espressa prima in modo così radicale.

Nel cuore di via Clavature nasce anche la Traumfabrik: una casa occupata che diventa molto più di un semplice spazio abitativo. Qui Filippo Scozzari, Andrea Pazienza e i Gaznevada costruiscono, sebbene in una versione più punk e più povera,  una loro personale Factory. Un laboratorio creativo permanente dove fumetti, musica, performance, disegno e scrittura si intrecciano senza gerarchie. Le stanze sono poche, affollate, sature di fumo e idee. L’aria vibra di sarcasmo, eccesso, libertà assoluta. Pazienza porta una nuova grammatica del segno e del racconto, Scozzari una visione corrosiva e iconoclasta, i Gaznevada una colonna sonora che anticipa l’elettronica che verrà. È una generazione che non chiede permesso e non cerca legittimazione: sperimenta, sbaglia, e se la ride.

È in questi spazi lontani dai circuiti ufficiali che Bologna impara a essere laboratorio culturale.  E dove ciò che nasce in pochi metri quadrati finisce per influenzare l’immaginario di un’intera città, a volte andando ben oltre i suoi confini.

E poi arrivano gli anni Ottanta.
Per alcuni un decennio disgraziato, per molti altri l’inizio della vita.
Per Bologna una svolta.

Moda, sport, estetiche americane, nuove culture urbane, street art, rap, clubbing. Stilisti visionari, parrucchieri avveniristici come Orea Malià, arrivato da Milano e stabilitosi definitivamente in città, che anticipa tendenze destinate a diventare mode nazionali. E ancora negozi come WP e Protect, che importano Vans, Woolrich, Pendleton e tutto il sogno americano che ai tempi sembrava lontanissimo.

Noi giovani eravamo sempre in giro, notte dopo notte.
Le vasche in centro in macchina e locali  di ogni genere.
I look che anticipavano ciò che sarebbe arrivato altrove solo anni dopo.
E se Bologna era un laboratorio a cielo aperto, il Kinki era il suo cuore pulsante. Una passerella glamour, il centro gravitazionale di un futuro che ci era esploso tra le mani in pochissimo tempo e che abbiamo gestito senza nemmeno renderci conto di essere dentro una rivoluzione.

In mezzo a tutto questo fermento, però, c’era un tema impossibile da ignorare: le droghe.
Inutile girarci attorno, hanno fatto parte del paesaggio notturno di quegli anni. Ogni rivoluzione ha il suo cono d’ombra.

Negli anni Settanta e nei primissimi Ottanta dominavano ancora le droghe pesanti: eroina, morfina, valium, rohypnol. Sostanze lente, cupe, che avevano schiacciato un’intera generazione. Esponevano la fragilità, spegnevano i ragazzi, li isolavano socialmente. Quando il clima culturale cambia, diventano improvvisamente percepite come “da sfigati”, residui di un’epoca precedente.

Poi la musica accelera, la città accelera, e i giovani vogliono mostrarsi più attivi, più vivi.
Il sound mantiene il suo ruolo centrale. L’afro dialoga con gli oppiacei, la disco fa da ponte con il popper, ma l’arrivo dell’house esige un corpo più presente, più scattante. Non più lento.

È in questo nuovo paradigma che compare la cocaina. All’inizio poca era costosissima e i suoi canali di traffico erano ancora in trasformazione. Nei primi anni il fenomeno è limitato. Parallelamente, negli ambienti gay e nei sexy shop circola il popper: una micro-droga a effetto immediato, da pista, veloce quanto la società che stava arrivando.

Tra la fine degli anni Ottanta e nel pieno dei  Novanta arriva il vero spartiacque e si chiama droghe sintetiche.
MDMA, ecstasy, ketamina, PCP. Sono chimiche, economiche e diffusissime. All’inizio non sono nemmeno illegali, non sono ancora catalogate. Quando le forze dell’ordine le trovavano addosso ai ragazzi, non possono sequestrarle.

In un primo momento si comportano come un acceleratore: muovono energia, sperimentazione, velocità. Poi, lentamente, diventano zavorra. L’euforia si trasforma in automatismo, l’immaginazione in eccesso. Non è certo l’unico motivo, ma sicuramente uno dei più pesanti per cui quel mondo inizia a incrinarsi. Il problema per noi gestori diventa enorme.

Non si conoscevano dosaggi, reazioni, interazioni. Si sperimentava tutto alla cieca. In altri Paesi europei c’erano ambulanze-laboratorio fuori dai club. In Italia, nulla. Tutto era lasciato all’improvvisazione.

L’ecstasy, agli inizi, aveva una reputazione quasi mistica. Ma poi con l’abuso sono arrivate le immagini più dure. mascelle che si muovevano come metronomi, corpi fuori controllo, sguardi persi. È il momento in cui sono nati i calascioni e  gli smandibolatori. Veri zombie del dancefloor.

Queste droghe erano perfette per i rave e la techno, ma non per il glamour degli anni Ottanta. Rispecchiavano l’estetica anni Novanta: minimale, ripetitiva, spoglia. Era cambiata anche la mentalità. Se negli anni Ottanta la droga era funzionale al divertimento, nei Novanta si era trasformata nello scopo stesso della serata. I giovani non volevano sentire di più, ma di sentire di meno.

Eppure, nonostante tutto, per qualche anno i dancefloor hanno resistito. sono rimasti spazi reali di socialità e incontro.

Il popolo della notte non è mai stato più superficiale del popolo del giorno, semplicemente viveva emozioni continue. E se nel mondo di oggi tutto è documentato da foto e reel, in quegli anni l’anonimato era parte della magia. Molte cose non verranno mai raccontate. La riservatezza era il codice. Ed è stato uno dei motivi del successo del Kinki.

Finché è stato possibile, non siamo mai stati ordinari.

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