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Tra Bologna, New York e Boston. Intervista al giovane jazzista Francesco Cavestri

29-10-2021

Di Erika Bertossi

Francesco Cavestri è un diciottenne simpatico ed estroverso, che si è seduto al suo piano e ha suonato jazz. Solo che quel pianoforte era quello del Fat Cat, e poi dello Smalls Jazz Club e del Red Rooster (in ordine sparso): tutti club del Greenwich Village di New York.

Si avvicina alla musica fin da piccolo, studiando pianoforte classico e imparando a conoscere giganti della musica jazz come Miles Davis e Bill Evans.

A 14 anni viene ammesso all’indirizzo jazz del conservatorio di Bologna, e tutt’oggi frequenta il corso accademico sotto la guida del maestro Teo Ciavarella. A 15 anni comincia a esibirsi live al fianco di importanti musicisti come Max Turone al basso e Roberto Rossi alla batteria, con cui si viene a creare un trio ormai consolidato e affiatato che condivide non solo la passione per il jazz, ma che ama viaggiare senza confini all’interno dell’infinito mondo della musica.

Forse vi siete immaginati il classico ritratto del ragazzino prodigio, tutto casa, liceo e conservatorio, eppure il suo curriculum e le sue influenze parlano d’altro. Francesco è un esordiente speciale e bolognesissimo, già notato da orecchie attentissime anche oltre oceano e con all’attivo un recente sold-out al Bravo Caffè, oltre che un disco in uscita, di cui abbiamo parlato qui sotto.

Francesco Cavestri Foto Stefano Zuppiroli

Foto Stefano Zuppiroli

Ci racconti qualcosa di questo primo album? Quando e come è nato, come si intitola e cos’ha di speciale? 

«Partiamo dal nome del disco: Early 17. Il motivo? Perché l’ho composto nel mio diciassettesimo anno di vita. Fra l’altro in piena pandemia, nella fase più dura del lockdown. L’ispirazione è arrivata così, senza cercarla (se no non sarebbe un’ispirazione!) anche se qualche blocco c’è stato. In ogni caso la musica mi ha salvato da quello stranissimo momento in cui tutti ci sentivamo ed eravamo in effetti più soli.

Che cos’è? Un manifesto sonoro dei miei sogni e allo stesso tempo un omaggio ai big del jazz che mi hanno orientato nel mio percorso musicale. Miles Davis e Bill Evans, per citarne alcuni. Che certo non potevano mancare».

 

Il tuo incontro con la musica? Chi ti ha incoraggiato? Perché proprio il jazz?

«Avevo solo 4 anni ed è stata una cosa assolutamente naturale. I miei genitori (che non sono musicisti), hanno capito che c’era qualcosa di speciale fra me e quelle sette note e abbiamo coltivato questa passione progressivamente, seguendo le mie attitudini. Il pianoforte classico è arrivato quando avevo 6 anni e da allora non l’ho più lasciato. I miei primi insegnanti di musica hanno notato in me una forte vena improvvisativa che è tipica del jazz in effetti. Ed è stato all’età di 12 anni mi sono avvicinato definitivamente a questo genere, a 16, nonostante fosse richiesto un diploma, sono stato ammesso come eccellenza al Conservatorio Jazz di Bologna. In mezzo a quei musicisti più grandi di me, mi sono subito sentito a mio agio».

 

Musica, conservatorio e anche liceo. E gli amici?

«Adesso sto frequentando l’ultimo anno di Liceo Classico al Galvani e, contemporaneamente, il terzo anno accademico al Conservatorio G.B. Martini indirizzo jazz. La scorsa estate la grande soddisfazione di essere ammesso al Berklee College of Music di Boston, selezionato fra i migliori pianisti del programma. Non sono sempre chiuso a studiare, mi piace giocare a basket al campetto e andare alle feste con i miei amici».

Francesco Cavestri Foto Stefano Zuppiroli

Foto Stefano Zuppiroli

Avere 18 anni e fare jazz. Essere agli esordi e aver già suonato a New York, anche con il supporto di nomi importanti: che cosa si prova e cosa vedi nel futuro?

«Sul jazz c’è qualche pregiudizio su cui sono il primo a scherzare: non è rumore e non è musica da ascensore! Il jazz ha messo le radici per tanti altri generi musicali più diffusi anche fra i miei coetanei: l’hip-hop per esempio, che si basa su ritmo e improvvisazione proprio come nel jazz. Come ho già detto, mi trovo bene con i musicisti più grandi di me, non è questione di anagrafica ma di intesa.

Suonare nei club di New York è stato incredibile, praticamente un sogno realizzato: se penso che mi sono esibito al Fat Cat, allo Smalls Jazz Club e al Red Rooster ancora non ci credo ancora nonostante abbia foto e video che lo testimoniano. Il mio obiettivo oggi è suonare il più possibile in più posti possibile, in modo da allargare sempre più il mio pubblico e avvicinare anche i giovani a questo tipo di musica».

 

Sei nato e cresciuto a Bologna, città della musica. Quali pensi siano le opportunità che offre la nostra città in ambito artistico?

«Oltre che della musica per me Bologna è città della cultura, in senso più ampio.  So che negli anni 90 c’è stato un grande fermento, che credo si sia un po’ smorzato nel tempo, ma l’estate bolognese è un momento magico: basta pensare a quello che si può ascoltare al Salotto di via Mascarella (un po’ la cittadella del jazz), al Bravo Caffè, a Camera Jazz, al Locomotiv Club. Una cosa che farebbe bene sarebbe contrastare la diseducazione musicale e portare più musica nelle scuole di ogni ordine e grado».

 

Che musica ascolti quando non ascolti jazz? Cosa c’è nella tua playlist? Ci dai qualche titolo?

«Ascolto tanti generi, ma primi fra tutti quelli che derivano direttamente dal jazz: r’n’b e hip-hop per esempio. Certo, l’Italia ha tanti talenti e fra i miei preferiti ci sono Davide Shorty, Gianluca Petrella, ovviamente Fabrizio Bosso e Stefano Bollani.

Fra i titoli che ho, eccone qualcuno: No One Like You di Robert Glasper Experiment ft. Kaytranada; Port of Entry (live) dei Weather Report; Cleva di Erykah Badu ft. Roy Ayers; Battiti in parole di Davide Shorty ft. Sans Soucis; Analog 2 degli Odd Future; Real Life di Louis Cole (ft. Bras Mehldau)».

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