Già da qualche giorno il calendario segna dicembre, le minime subiscono la fatale attrazione dello 0, germogliano le strutture lignee dei mercatini e il pensiero ai regali da fare si fa sempre più insistente. Traduzione: arriva Natale.
Lo sa benissimo Guido Catalano, vera rockstar del verso d’amore declamato, che per l’occasione porterà il suo Reading di Natale sui palchi di tutta Italia, passando naturalmente da Bologna. Arriverà l’8 dicembre al Teatro del Baraccano, per un doppio appuntamento andato subito sold out.
È (quasi) Natale, no? Facciamo ai nostri lettori un bel regalo: la nostra intervista a Guido Catalano, il poeta professionista vivente più famoso d’Italia.
Proprio in questi giorni inizia il tour dei Reading di Natale. È un regalo per il tuo pubblico?
“È piuttosto un regalo a me stesso. Natale non è un periodo che mi piaccia molto, soprattutto da quando non sono più un bambino. Per le ‘feste comandate’ di solito mi chiudo alla società e difficilmente faccio dei tour come questi. Stavolta invece sono voluto uscire dal mio ‘bunker anti-Natale’ e farmi un giro per l’Italia, che naturalmente non può non passare da Bologna”.
Il 3 dicembre è uscito per Rizzoli il tuo Poesie al megafono, non una classica raccolta di poesie, ma un libro sonoro. Ci dici di più?
“’Poesie al megafono’ è una strana cosa… Un libro sonoro normalmente si fa per i bambini, è un libro di quelli dove schiacciando un bottone esce, ad esempio, il muggito della mucca.
Con Rizzoli abbiamo avuto la bizzarra idea di sostituire la mucca con la mia voce. Non ci saranno inediti, ma piuttosto poesie scelte, alle quali mi piaceva abbinare la mia voce; poesie che spesso includo anche nei miei reading”.
Attenzione dunque a non confonderlo con un audiolibro…
“In effetti l’audiolibro non è un ‘libro vero e proprio’, trattandosi di una registrazione da ascoltare, che so, in auto. Nel libro sonoro invece c’è la carta, c’è l’inchiostro, ci sono parole ed illustrazioni; in più, poi, c’è un chip con la mia voce!
Mi piace l’idea che il lettore possa portarmi dentro la borsa, che io possa farmi ascoltare non solo attraverso i nuovi mezzi tecnologici ma in unione al libro, perché al libro resto molto affezionato”.
Questo “oggettino” tuttavia sottolinea la tua volontà di portare innovazione nella poesia, non solo nel contenuto ma anche nella sua veste formale…
“In realtà quella del libro sonoro all’inizio era quasi una battuta, ben oltre i miei sogni più estremi di novità formale. Poi Rizzoli, che ogni tanto fa cose un po’ matte, ha accettato di farlo sul serio.
Non so se realmente sono un innovatore, ma certamente tra le cose più ‘strane’ che ho fatto (e che faccio da 20 anni) è andare in giro come un matto a leggere poesie nei posti più strani, cosa che fino a 10 o 15 anni fa non faceva nessuno”.
In questo senso sei stato pionieristico anche nel tirar fuori il genere poesia dalla soffitta per portarlo al pubblico della rete. Come sei passato dai “posti più strani” ai social?
“Ho iniziato ad appassionarmi in tempi non sospetti ad internet, cercavo di far girare le mie poesie quando ancora c’era il modem 56k. Ho iniziato con il blog nel 2004 – 2005, e ho colto subito la potenzialità incredibile di potermi far leggere da tutto il mondo, e di superare i blocchi imposti dai media più classici, giornali, radio e televisione, che ai tempi (qui Guido esita un attimo, ndr) non mi cagavano.
Adesso siamo ai social. La poesia si presta bene alla condivisione, perché è una forma breve e sta arrivando un’ondata notevole di poeti e di poetesse che utilizzano anche con grandi risultati questi mezzi, penso a Franco Arminio o a Gio Evan. Naturalmente in Italia, in altre parti del mondo sono arrivati molto prima”.
Mi viene in mente la celebre formula “il medium è il messaggio” di McLuhan. Mi chiedo quanto avvalersi di canali di così vasta diffusione, limitanti in termini di lunghezza e complessità del contenuto, dunque spesso accusati di superficialità, vada a condizionare la tua poesia.
“Di brutto! Per fortuna ho iniziato non scrivendo su questi mezzi, quindi riesco ad essere più vario. Ma se scrivi soltanto poesie di 2 – 3 versi solo perché funzionano su Instagram, poi non sei in grado di scrivere una poesia di mezza pagina che abbia un senso, una ‘musica’ e un ritmo, allora c’è un problema.
Resto tuttavia lontano dall’accusare il medium che, come ripeto, offre grandi potenzialità. Prima dei social facevo un lavoro enorme per farmi conoscere, la famosa gavetta. Quando andavo a fare gli spettacoli non avevo eventi Facebook da lanciare e andavo in giro per Torino ad appicciare i manifesti con la data e il luogo. Sono esperienze formative, però se sei bravo e hai qualcosa da dire anche Instagram va benissimo”.
Ma nonostante i social e il tuo approccio modernissimo alla poesia, capita anche a te di guardare al passato?
“Assolutamente sì, è fondamentale. Da quest’estate mi sto rileggendo tutto Hemingway e mi sta venendo una voglia incredibile di scrivere. Leggere è la benzina della scrittura; ma leggere gente veramente cazzuta!
Riprendendo Hemingway, noto che alcune cose che ho scritto tantissimi anni fa vengono da lì: Hemingway scriveva tantissimi dialoghi amorosi, bellissimi, surreali. Leggevo lui quando iniziai a scrivere e solo oggi mi rendo conto di quanto mi abbia ispirato”.
Leggendoti, non si può non notare la costante nota ironica della tua poesia. È un’idea stilistica precisa? Ma, provocatoriamente, non pensi che la poesia vada presa più seriamente?
“La mia scrittura è ironica, a volte comica, ma non riuscirei a scrivere altrimenti. Intendiamoci, la comicità funziona soprattutto per chi presenta la propria poesia dal vivo, ma non ho deciso a tavolino di inserire l’effetto comico; è stato un percorso naturale, iniziato con la musica, scrivendo canzoni demenziali à la Skiantos.
Ho provato a scrivere in altro modo, a fare il poeta civile, ma mi prende una serietà eccessiva e sono venute fuori mezze cagate. Utilizzo le armi che la natura mi ha dato, perché fare diversamente non funziona.
Non sono d’accordo che mettere ironia nella poesia voglia dire sminuirla; non sono stato mica io ad inventare la poesia comica. Il bello è essere in tanti: c’è chi ci mette l’ironia, e chi invece fa il poeta civile o il poeta romantico”.
Nel linguaggio invece, ricerchi espressamente colloquialità, semplicità e immediatezza. Perché questa scelta?
“Premetto che il mio linguaggio è cambiato tantissimo, tecnicamente parlando. Inizialmente avevo un verso ‘iper libero’, ora cerco di stare più attento alla forma, ma nel contempo cerco di scrivere con l’ottica di leggere in pubblico: scrivo ad alta voce per sentire ritmo e musica in quello che scrivo.
La colloquialità è un tratto che ho: molte delle mie poesie non sono poesie ma dialoghi, è una forma che mi piace molto. La semplicità è per farmi capire: per me è importante essere capito”.
Ma come ci si sente a scrivere poesie in un paese in cui si legge pochissimo?
“Trovo spaventoso che la gente non legga, è un impoverimento dei nostri cervelli e un pericolo per la società. Personalmente non ho scelto la poesia, è lei che mi ha scelto, e ai tempi non mi sono posto il problema che la poesia fosse, tra i generi, tra i meno letti.
Nonostante il pubblico sia ridotto, non mi è mai sembrato però che fosse disinteressato.
Se poi uno volesse essere ottimista vedrebbe che le cose stanno cambiando: in libreria, l’area di poesia ha sempre più spazio rispetto al sottoscala dov’era confinata prima; aumenta la proposta, soprattutto di poeti viventi e non solo di classici.
Il critico continuerà a dire che vendiamo noi poeti pop che facciamo una poesia ‘un po’ del cazzo’, mentre i grandi poeti classici, continuano a non vendere perché il pubblico è diseducato, anzi, è diseducato da noi. In questi casi è difficile rispondere, intanto però vedo che mi scrivono tantissimi giovani che prima non leggevano poesia e che leggendo le mie cose si sono poi aperti anche ad altri poeti, ed è una cosa figa!”.
Dal tour siamo partiti e con il tour chiudiamo: dicevi che con il Reading volevi portare le poesie in luoghi magici. In che modo Bologna è magica per te?
“Ho una passione per l’Emilia-Romagna, le persone mi sono particolarmente simpatiche e ho sempre avuto bellissimi riscontri qui, soprattutto a Bologna.
Inoltre mia madre era di Mantova, che è in Lombardia; al ché uno si domanda ‘che c’entra?’; c’entra perché il dialetto mantovano mi suona simile a quello dell’Emilia-Romagna, quindi essere qui mi fa sentire molto a casa”.
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