Una bucolica riflessione sulla vita nelle campagne emiliane, raccontata attraverso l’inedito punto di vista di un immigrato indiano.
Il Vegetariano è un film girato fra il Gange e il Po che racconta la storia di Krishna, un giovane indiano che vive e lavora nel verde entroterra dell’Emilia. Sullo sfondo le comunità di immigrati che si occupano della lavorazione del Parmigiano Reggiano. Sarà insieme a loro che si dipanerà un viaggio fra le rive dei due fiumi, guidato da solenni lodi induiste, splendidi paesaggi e da un cuore innamorato.
Lungometraggio di finzione del regista milanese Roberto San Pietro, prodotto e distribuito dalla bolognese Apapaja, è un’opera realizzata con il sostegno del Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo – Direzione generale cinema e di Emilia-Romagna film commission, ed in collaborazione con Rai Cinema.
Il regista, passato allievo di Olmi e da lungo tempo collaboratore con il Teatro alla Scala di Milano, costruisce, grazie alle interpretazioni dei due attori protagonisti, una parabola amorosa dagli inaspettati risvolti drammaturgici. Sukhpal Singh, Sonny per gli amici, nato in India e arrivato in Italia a 14 anni e Marta Tananyan di origine russa, arrivata in Italia nel 2011 per studiare; entrambi ora vivono a Bologna. Il film sarà visibile al cinema Lumière dal 4 aprile ore 20 con la presenza del regista e di tutto il cast, sarà poi in replica il 6, il 10, l’11 e il 17 aprile in Sala Cervi.
Ho raggiunto il regista San Pietro, testimonianza di un dialogo intimo che ha toccato diverse tematiche contemporanee, narrando al contempo lo sconosciuto universo indiano radicato nelle campagne della regione.
Guardando la pellicola, salta subito all’occhio la bellezza dei luoghi che ospitano le riprese del film, dove ampie radure nostrane vengono continuamente affiancate dalle esotiche città dell’India settentrionale. Quali sono i posti che più ti hanno colpito durante la realizzazione del film?
“L’idea alla base nasce dalle prime visite che feci negli anfratti dell’Emilia, dove sono rimasto sostanzialmente affascinato da due elementi: uno, la presenza dei molti templi sikh presenti nella zona; l’altro, la connessione che la cultura indiana ha creato con il nostro Po.
Ricordo come fosse ieri la prima volta che mi vennero date delle indicazioni per un tempio induista da poter visitare fra le radure emiliane: ci mettemmo molto a trovarlo in quanto era praticamente assente qualsiasi tipo di segnalazione, ma tutto d’un tratto ci ritrovammo di fronte ad un vecchio cascinale, una di quelle strutture tipiche della pianura padana, che al suo interno conteneva svariate statue di dei indiani e drappeggi, che parevano essere usciti direttamente dall’India più remota.
Quest’esperienza mi fece da subito riflettere sull’importanza da dare agli elementi orientali presenti nel futuro film. Il fiume Po, invece, mi ha colpito per l’uso che ne viene fatto dagli indiani locali, i quali hanno imparato negli anni a viverlo come se fosse una specie di succedaneo del loro Gange. Realizzandovi diversi riti spirituali, come l’offerta dell’acqua al mattino quando sorge il sole”.
Parlando sempre dell’India, cosa ci puoi dire delle riprese effettuate in loco?
“Il più delle scene è stato girato a Varanasi e nei villaggi vicini. Non tutte le inquadrature sono state realizzate tramite l’ausilio della troupe, diverse infatti furono ricavate proprio dal vivere quotidiano, portandoci ad includere svariate riprese di situazioni reali che si verificavano sotto i nostri occhi. Un esempio è la festa sacra del bagno sul Gange, dove sono stati ripresi i fedeli intenti a lavarsi sulle sue sponde.
Fu Varanasi a colpirmi più di ogni altra, essa è la città chiave per l’induismo e ospita molti di quei riti sacri che poi sono stati inseriti anche all’interno della pellicola. Nella mia opera ho tentato per lo più di mantenere l’accezione spirituale che possiedono questi bellissimi luoghi, evitando di includere tutte quelle pratiche sociali che oggi sono più figlie del turismo che di un’indole locale”.
Nella pellicola stessa tu lasci infatti intendere come molti dei valori religiosi indiani dovrebbero essere ripresi e forse anche metabolizzati dalla nostra cultura.
“In effetti è quello che volevo indicare nel film, concentrandomi su un personaggio emblematico, quasi ideale, come il protagonista Krishna. Egli difatti conserva ancora i valori della sua cultura, facendosene mediatore per il pubblico italiano, trasportandovi una morale basata sul rispetto verso tutte le forme di vita. Un punto di partenza che dovrebbe essere anche alla base della nostra stessa cultura. Il film cerca di dar vite a queste riflessioni, dimostrando che noi potremmo, in vista del nostro benessere economico, costruire un rapporto più puro con la natura e con il mondo che abitiamo, lontano dal triste fascino del potere capitalistico”.
Restando su questa considerazione, come credi stiano mutando le famiglie indiane una volta venute in contatto con gli stati europei? Nello specifico si nota all’interno del film un contrasto evidente fra i nuclei familiari appartenenti agli immigrati di prima generazione, e quelli di seconda o terza.
“L’impressione che ho avuto è che i giovani tendono ad adeguarsi più rapidamente alla cultura occidentale. Si vede anche nell’incontro-scontro che si sviluppa fra Krishna ed il suo amico Amrit, i quali sono il simbolo di due diverse posizioni culturali. Krishna rappresenta un tipo di fedele indiano che oggi giorno è molto difficile trovare, infatti pochi come lui possono vantare una conoscenza così approfondita dei testi sacri.
Amrit è, invece, più vicino al mondo occidentale, in quanto va spesso in discoteca, beve e non disdegna nemmeno i cibi vietati nel suo paese d’origine come la carne bovina. Quest’ultimo è un personaggio che ho tratto anche dalle molte testimonianze datemi dai giovani immigrati di seconda generazione. Come quella di una ragazza che mi raccontava che preferiva andare in discoteca con le amiche piuttosto che stare a casa a guardare assieme alla madre le foto dei suoi pretendenti nuziali” (ride).
I film contemporanei trattano il fenomeno dell’immigrazione in modo disomogeneo: chi si concentra di più su una rappresentazione tragico-documentaria del fenomeno, come Fuocoammare, chi lo guarda con scanzonata ironia come Contromano. In che posizione si dovrebbe porre il tuo lavoro rispetto a questo panorama culturale?
“Fin dall’inizio mi aveva attirato l’idea di poter rappresentare l’immigrazione fuori dai contesti d’emarginazione o di violenza come spesso se ne vedono. Molte volte i film puntano a mostrare una periferia criminale con delinquenza e droga, o a rappresentare la morte dei naufraghi nel mare. Qui io volevo suggerire un contesto che richiamasse alla mente quell’integrazione per cui gli indiani si sentono davvero parte del tessuto sociale e lavorativo in cui vivono. Volevo portare una volta tanto sullo schermo un immigrato che non fosse un problema, ma il mediatore di un sistema di tradizioni sulle quali si potesse riflettere pacificamente”.
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