La primavera perfetta è l’ultima fatica di Enrico Brizzi (si, lui, quello di Jack Frusciante!), uscito da qualche settimana per Harper Collins. Una storia di caduta e rinascita, quella del protagonista del libro, Luca Fanti, che si troverà ad affrontare l’improvviso sgretolarsi di una vita apparentemente perfetta. Lunedì 24 maggio presenterà il romanzo in Biblioteca Salaborsa all’interno della rassegna Le voci dei libri.
Qual migliore occasione per tornare a intervistare Enrico Brizzi? Fu proprio la sua la prima intervista che realizzai su queste pagine (web) e, stavolta come allora, ho ritrovato il piacere di una conversazione che sai da dove parte, ma non sai mai dove possa arrivare: si parla sì de La primavera perfetta, ma anche di sport, di scrittura, del sistema mediatico, ma – deo gratias! – non di Covid. Iniziamo.
Domanda ovvia per rompere il ghiaccio: puoi raccontarci come nasce La primavera perfetta?
«Nasce dall’idea di raccontare una storia di adulti, usando la stessa “strumentazione” di 25 anni fa (e.g. Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Bastogne, ndr); torno cioè alle basi, alle cose fondamentali nella vita di ognuno: amore, amicizia, aspirazione a essere apprezzati, rabbia di fronte alle difficoltà, rendersi conto che il tuo destino non dipende solo da te ma anche dagli altri.
Luca, il protagonista, non è né un santo né un cattivo. È un uomo che si trova in un momento difficile e tende, come molti di noi del resto, a sentirsi come Giobbe, perseguitato dall’alto; non si accorge che sono anche i suoi comportamenti ad aver causato i problemi che vive. Il suo difetto principale è la faciloneria e l’idea fatalista che le difficoltà se ne andranno così come sono arrivate».
In questo senso Luca è molto diverso dal fratello Olli, altro personaggio centrale del romanzo. Puoi dirci di più del rapporto tra i due fratelli?
«Olli, all’opposto di Luca, avrebbe tutti i motivi per stare tranquillo mentre invece è un ansioso terribile! Luca è un animale sociale, una persona divertente con la quale tirar tardi la sera, mentre Olli è noioso, preso dalla dieta e dal lavoro, che rimanda tutti i piaceri della vita a quando avrà smesso di correre in bici.
Il tema della fratellanza mi ha sempre affascinato; essere fratelli, specie dello stesso sesso, produce fatalmente il confronto. Con i gemelli questa cosa è evidentissima: davo alle mie figlie (due delle quattro figlie sono gemelle, ndr) lo stesso foglio e la stessa matita e dopo mezz’ora una aveva fatto una miniatura, mentre l’altra aveva debordato sul pavimento. Un atto spontaneo come questo dimostra come ci sia qualcosa in natura che spinge verso direzioni diversissime o a soluzioni opposte rispetto alla stessa situazione, pur essendo fratelli o gemelli.
Di fianco a questo ci sono anche i riti atavici che, tra fratelli, vanno creandosi: Olli, pur essendo uno che ragiona in calorie e kilowatt da produrre in sella, non può vincere una gara se suo fratello non gli da tre colpetti sul casco. Ma antichi e radicati come questi riti possono essere anche i non detti, come si vede poi nel corso del romanzo…».
Per La primavera perfetta si è parlato di romanzo della maturità, dopo i romanzi “ribelli” dell’adolescenza che ti hanno consacrato come scrittore. Cosa è cambiato? Come si è evoluta la tua scrittura rispetto alle opere giovanili?
«La differenza formale è l’uso di una lingua più classica, poiché sarebbe ridicolo raccontare una storia di questo tipo con il linguaggio sperimentale di Jack Frusciante o di Bastogne. L’altra differenza, più sostanziale, è che non ti trovi più a descrivere personaggi che sono solo “figli”. Luca è figlio, ma è anche padre, fratello, ex-marito; allo stesso tempo è uno che ha dormito in 5 stelle ma anche in stanze spoglie in cui manca il riscaldamento.
Mentre i ragazzi hanno aspettative, futuro, speranze, i 45enni come Luca hanno dalla loro le cicatrici di eventi che da ragazzo puoi a malapena immaginare e questo li rende coriacei e (quasi) inaffondabili».
Come scrittore sei molto prolifico, dentro e fuori dal genere romanzo. Eppure ogni volta che si parla di te si inizia con “l’autore di Jack Frusciante”. Non ti rompe un po’ le palle ‘sta storia?
«Beh, il sistema mediatico è un po’ così: se fai una super hit tutti la useranno per identificarti.
Se mi da fastidio? Onestamente me la ghigno, penso “ah ma che mancanza di fantasia!”. Soprattutto nei primi anni però, essere “quello di Jack Frusciante” mi ha rotto un po’ le palle… Ripenso ad esempio a vecchie recensioni, a volte ottime, altre volte cariche di un livore difficile da immaginare. Quella di Genna diceva qualcosa tipo “Brizzi ha avuto un gran culo ma ora che ha firmato questo contratto per un certo importo è tempo che torni a studiare, eccetera”. Di fianco alla bella accoglienza di persone che non conosci è triste vedere che ce ne sono altre che ti odiano per la colpa di avere successo».
Fenomeni come incolpare qualcuno per il successo oggi, nell’era social, sono più che evidenti, oltre che molto – troppo! – frequenti…
«A questo proposito per me è stato importante conoscere Vincenzo Mollica quando ero ragazzo. Lui era spesso criticato per non essere un uomo di stroncature e sai cosa rispondeva? Che c’è talmente tanta roba che parlo di quello che mi piace; quello che non mi è piaciuto lo metto da parte e non ne parlo nemmeno.
Non è che sembri più raffinato se fai il difficile, anzi rischi solo di sembrare più isterico!
Sui social poi, molti attaccano iniziando con “ma io…”. Beh, e chi se ne frega! Se non ci piace qualcosa sono affari nostri, non è un argomento valido per attaccare o demolire qualcosa».
A ciò contribuisce probabilmente la tendenza a sentirci protagonisti sul nostro micro palcoscenico, particolarmente accentuata nel web, atteggiamento che nasce dal rivendicare ossessivamente i famosi 15 minuti di celebrità quotidiani.
«Proprio stamattina leggevo una scritta su un muro: “In futuro ognuno di noi potrà godere di un quarto d’ora di anonimato”. Questa sì che sarebbe una bella liberazione! Probabilmente lo avrebbe detto lo stesso Warhol se avesse vissuto ai nostri giorni».
Ma passiamo allo sport (mi sono concesso uno stacco da TG): ne La primavera perfetta il protagonista Luca è manager del fratello ciclista professionista. Lo sport emerge spesso nei tuoi scritti e non è la prima volta che parli di ciclismo, penso ad esempio alla tua biografia di Nibali o al viaggio in bici lungo il Danubio che hai raccontato. Ci dici di più della tua passione per questo sport?
«Parlo di sport perché sono uomo del Novecento e il Novecento è stato il secolo dello sport. Sono serviti quasi 70 anni perché il mondo delle lettere si rendesse conto che lo sport era qualcosa di raccontabile anziché qualcosa di disdicevole per ignoranti. Tra i primi a parlarne c’è Pasolini, tifosissimo del Bologna tra l’altro.
Il ciclismo è il grande sport popolare italiano, lo è stato prima ancora del calcio. È uno sport operaio, di fatica selvaggia, “da contadini”, infatti se scorri l’albo d’oro del Giro d’Italia prima di trovare un vincitore che avesse finito le superiori bisogna andare avanti parecchio. Il primo vincitore del Giro era un muratore che andava da Varese a Milano in bici prima e dopo le ore di lavoro in cantiere. Ho molta ammirazione per chi ha scritto pagine epiche dello sport, perché queste pagine sono scritte con il sudore della fronte.
Lo sport inoltre porta con sé molti valori. Se pensi allo stadio, era un ambiente sì distruttivo, ma anche fortemente democratico. Che tu fossi tornitore o notaio non contava nulla, contava la lealtà, il coraggio, il sacrificio per il gruppo: valori primari per quanto mi riguarda.
Questo purtroppo sta cambiando perché lo sport sta cessando di essere il fenomeno popolare che è stato, pensiamo agli stadi sempre più piccoli, o a baracconate come la Superlega: la morte definitiva del calcio per farlo diventare spettacolo e il distacco completo dall’idea che una squadra è l’espressione di una comunità.
Mi dispiace che la narrativa sportiva sia durata poco: sono cresciuto leggendo i pezzi di Gianni Brera con il dizionario accanto, spesso incazzandomi perché non trovavo alcune parole perché erano suoi neologismi. Rispetto al fascino di quella prosa il livello della narrativa sportiva oggi è bassissimo; sembra quasi una parodia dei giornali di costume, scompare l’analisi sportiva per fare posto a concetti come “guardate le tettone della fidanzata dello stopper del Borussia Dortmund”…».
Prima di salutarti, vedo che prossimamente – il 29 maggio – c’è in programma una serata all’Arena Puccini per i 25 anni del tuo secondo romanzo, Bastogne. Leggerai dei brani tratti dal libro accompagnato dalla musica dei Yu Guerra. Cosa puoi anticiparci di questo evento tra libri e musica?
«Dare voce a un romanzo, accompagnandolo alla musica, lo porta alla sua dimensione più “giusta”: la vera natura delle storie è quella di essere lette ad alta voce, recitate.
In effetti una buona pagina è quella che si fa leggere bene ad alta voce, perché è così che ti rendi conto delle cattive assonanze o delle rime involontarie che rendono una frase da alata a grottesca o che rendono un periodo che vorrebbe essere brillante palloso.
Poi naturalmente sono felice di tornare sul palco con Yuguerra con cui già alcuni anni fa ho fatto un disco con testi tratti da alcuni miei libri editi da Laterza. Dopo un anno e mezzo di silenzio e reclusioni più o meno intermittenti riaprire una nuova stagione con lui e tanti altri ospiti e amici è veramente un sogno».
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