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Lo spazio intimo del sonno, tra fotografia analogica e NFT. Land of Nod arriva ad Art City

02-02-2023

Di Francesco Di Nuzzo

Secondo certe filosofie orientali, sognare significa vivere una seconda vita. Alcuni credono che i sogni possano essere interpretati per scoprire desideri o paure inconsce, mentre altri li considerano solo una manifestazione dell’attività cerebrale durante il sonno. C’è chi però ha deciso di indagare se sia possibile trovare davvero la strada giusta in questo crocevia tra realtà, unendo due spazi liminali apparentemente distanti come sono quello onirico e quello digitale.

In occasione di Art City Bologna abbiamo intervistato l’artista Paolo Bufalini, che ha realizzato insieme al laboratorio indipendente OmniArtVerse Land of Nod, un particolare progetto fotografico a cura di Treti Galaxie dove il mondo onirico e personale dell’arte dialoga in maniera inaspettata con quello digitale delle blockchain.

Il punto di partenza di Land of Nod è la registrazione dei dati biometrici (frequenza respiratoria, battito cardiaco, movimenti del corpo) della compagna di Bufalini durante un’intera notte di sonno, effettuata tramite un dispositivo di monitoraggio indossabile, che fornisce una sorta di ritratto in forma di dati, poi registrato come NFT. L’artista ha poi documentato tale processo tramite una fotografia scattata con il banco ottico, in collaborazione con il fotografo Marcello Galvani. All’apparente incorporeità del digitale fa dunque da contraltare la materialità della fotografia analogica. Ne risultano una versione stampata a contatto, The Sleeper, e una stampa digitale a grandezza naturale, The Sleeper (life-size), realizzata a partire dalla scansione del negativo. Quest’ultima è inclusa all’interno della mostra beloved, curata da Condylura, e sarà esposta per la prima volta alla Gelateria Sogni di Ghiaccio dal 2 al 12 febbraio, in occasione di Art City.

The Sleeper (life size), Paolo Bufalini, 2022, stampa a getto d’inchiostro su carta Baritata Canson II, 103,5x130x5cm, courtesy l’artista e OmniArtVerse Foto: Manuel Montesano

Ciao Paolo! Per prima cosa una domanda importantissima: a te piace dormire?

«Il sonno mi interessa in quanto spazio altro, uno spazio che a volte può essere anche di fuga. È, ovviamente, anche lo spazio dell’attività onirica. In cosa consiste quest’attività? Possiamo trarne delle informazioni su noi stessi? E in che misura? La cosa che mi ha sempre interessato, e che innerva tutta la mia poetica, è la condensazione, l’intreccio disorientato e disordinato di dimensioni temporali diverse. Nel sogno, reminiscenze e proiezioni sul futuro si mescolano in una sorta di magma compatto, condensato appunto. È questa compresenza che mi affascina. A volte i sogni non significano assolutamente niente, ma è ugualmente interessante osservare il lavorio del cervello nella sua modalità non-verbale, una modalità che definirei, più che visiva, di simulazione, quasi da gioco di ruolo».

 

Parlaci un po’ del progetto. Come descriveresti Land of Nod?

«La Terra di Nod cui fa riferimento il titolo è un territorio immaginario, a est dell’Eden, dove, secondo la Genesi, viene esiliato Caino dopo l’assassinio del fratello. È un territorio popolato da presenze mostruose, da incubo, Origene lo definisce il luogo di coloro che si sono allontanati da Dio. In lingua inglese, invece, “to be in the Land of Nod” è sinonimo di “asleep”. Questo uso è documentato dal Settecento, e ha gradualmente perso contatto con la Terra di Nod della Genesi, per diventare un generico mondo dei sogni. Nel mio lavoro mi interessa proprio coniugare queste tensioni contrastanti.

Sostanzialmente, il progetto è articolato su una serie di opposizioni binarie: tra relazione intima – perché la figura ritratta è quella della mia compagna – e meccanismi di estrazione del valore; tra la serenità apparente del sonno e la Terra incognita del mondo onirico; tra analogico e digitale; tra corpo – umano e fotografico – e smaterializzazione – come ad esempio il mondo crypto».

 

E in che modo il tuo progetto esplora il rapporto tra intimità e privacy?

«Il progetto consiste di due parti, che discendono dalla stessa operazione. Tramite un body dotato di elettrodi tessili, indossato durante il sonno da Federica, la mia compagna, ho registrato una serie di dati biometrici – respiro, battito cardiaco, movimenti del corpo – documentando così, in forma di dati, una notte di sonno (quasi otto ore, dall’una e quaranta alle nove e tredici). L’app collegata al dispositivo ha poi generato un report in pdf, che è stato “montato” come NFT, e reso fruibile esclusivamente da chi lo acquista. Si tratta, quindi, di un’opera che per me è una forma di ritratto, che non ha valenza visiva, ma che è più nel solco delle varie smaterializzazioni del concettuale storico.

La tecnologia NFT è stata utilizzata, quindi, in modo metariflessivo, tematizzando il suo essere, sostanzialmente, uno strumento utile all’autenticazione e alla commercializzazione di prodotti digitali. Non essendo un medium, equivoco che si riscontra spesso, era per me essenziale espungere la dimensione estetica.

La seconda parte del progetto è anch’essa una forma di documentazione, ma eseguita attraverso gli strumenti della fotografia analogica. Ho infatti documentato il processo di registrazione dei dati con una fotografia scattata con il banco ottico da prospettiva zenitale, avvalendomi della collaborazione di Marcello Galvani (Massa Lombarda, 1975). La prospettiva zenitale ha la funzione di astrarre il punto di vista, in qualche modo, anche qui, smaterializzandolo.

Di questa fotografia ho realizzato due versioni. La prima è una stampa a contatto 4×5 pollici, che restituisce in pieno la qualità del processo analogico, in termini di temperatura dell’immagine, un processo artigianale e irriproducibile. La seconda, che sarà esposta nella mostra beloved a Gelateria Sogni di Ghiaccio, curata da Condylura, è una stampa digitale a getto d’inchiostro dalla scansione del negativo, portata alla dimensione reale del soggetto ritratto. Le due fotografie, pur avendo la stessa matrice, sono quindi piuttosto diverse in termini di esperienza estetica. La più piccola riporta a una dimensione intima, è un tipo di immagine più calda, più pastosa e ha quel sapore di oggetto analogico che contrasta con l’ambito blockchain. Quella grande, invece, instaura un rapporto con lo spettatore più ambiguo, quasi scultoreo direi, ed ha una resa del dettaglio maggiore. Fotografie e NFT costituiscono, in sintesi, due forme di ritratto differenti; la prima racconta il lato più empatico ed emotivo del progetto, la seconda il lato più freddo e concettuale».

Paolo Bufalini, ritratto Foto: Jacopo Belloni

Ti occupi principalmente di scultura. Com’è stato approcciarsi a un medium concettualmente diverso rispetto alla tua comfort zone?

«Land of Nod si sviluppa a partire da un precedente lavoro, Proposal, che ha richiesto due anni per essere perfezionato e in cui il tema del respiro e dell’intimo era centrale. La proposta di lavorare a un NFT mi ha permesso di radicalizzare un’idea già presente in quel lavoro, ovvero la reificazione del respiro. Per quanto riguarda la fotografia, invece, stavo cercando un modo per approcciarla da molto tempo, e questo progetto me ne ha fornito l’occasione».

 

Il concetto dell’opera di basa sul rapporto tra “fiducia e timore per il controllo”. Vale lo stesso sia per l’ambito sociale che per quello tecnologico?

«Penso spesso all’aneddoto su Aby Warburg e la tribù amerinda degli Hopi, al timore che la fotografia “rubi l’anima”. L’idea che una tecnologia ci sottragga qualcosa di prezioso, sia essa la scrittura, la fotografia o, oggi, quanto è legato al digitale e all’IA, non è nuova. In questo progetto, i temi del controllo e della fiducia, a ogni modo, non riguardano solo questo ambito, ma anche i rapporti interpersonali. Land of Nod é, anche in questo, un proseguimento ideale della riflessione iniziata con Proposal. In entrambi, inoltre, il modo in cui tematizzo il rapporto tra umano e tecnologia è abbastanza diverso dall’immaginario post umano più canonico – protesi, ibridazioni vistose ecc. – ed ha più a che fare con una sorta di transustanziazione. La macchina è incorporata in modo apparentemente non invadente, come è appunto il body utilizzato per la raccolta dei dati».

 

A questo proposito vorrei chiederti: fino a che punto l’arte può spingersi? Pensi che un limite debba esserci o è uno spazio personale?

«Quando, come in questo caso, l’opera prevede il coinvolgimento di altre persone, direi che non ci sono limiti dal punto di vista simbolico, purché le parti siano d’accordo. L’importante è che, se c’è violenza, non si tratti di una violenza fine a sé stessa. Detto questo, credo che l’arte, in quanto dispositivo finzionale, sia l’unico spazio in cui la violenza non solo è tollerabile, ma a volte doverosa, anche in ragione del suo potenziale catartico. L’unico limite, potrei rispondere, sta nel non recare danno agli altri, ma è un qualcosa di difficile da definire, si deve valutare caso per caso.

In Land of Nod la violazione ha un posto molto importante, in termini di commercializzazione dei dati sensibili, così come nel fatto stesso di esporre una persona addormentata, quindi nel momento di massima vulnerabilità, fotografandola nel suo letto – che poi è anche il mio. In questo progetto c’è un’apertura molto forte su uno spazio intimo, e quando si lavora in maniera così personale – quasi autobiografica – è sottile la linea che separa l’arte dal morboso. Il rischio è, come accennavo, la gratuità. Personalmente, mettere in gioco il personale nell’arte ha a che fare con il desiderio di affrontare determinate questioni nel modo meno astratto possibile».

 

Riguardo a questo timore della tecnologia, come risponderesti alle critiche di chi sostiene che l’arte digitale non è vera arte, ma solo una forma di intrattenimento tecnologico?

«I medium digitali sono, appunto, solo dei medium, il che non ci dice se un certo oggetto sia arte o meno. Anche della fotografia si diceva che non fosse un medium artistico perché non impiega tecniche “tradizionali”. Oggi alcuni dicono qualcosa di simile sull’arte generata dalle IA, ma è un discorso inconsistente, già adesso ci sono artisti che fanno cose molto interessanti con questi strumenti, sebbene – anzi, forse proprio per questo – si tratti di tecnologie allo stato embrionale».

 

Qual è invece il rapporto tra arte, blockchain e la tua opera in particolare?

«Quello che mi interessa della blockchain è proprio il fatto che quello che viene registrato nel sistema rimane immutato. D’altra parte, è anche un sistema estremamente fragile, perché se crolla si perde tutto. Questo aspetto risponde alla poetica del progetto. Sulla questione più ampia, tra arte e blockchain, è una domanda complessa, preferirei non lanciarmi in previsioni».

 

E a chi invece critica la monetizzazione dell’arte tramite l’uso di NFT?

«L’aspetto commerciale è parte della riflessione implicita nel progetto. Al di là di questo, la nozione di arte è inscindibile da quella di valore, sia esso economico o di altro tipo. È chiaro che il modo in cui la nostra società conferisce valore a un oggetto è principalmente di tipo economico. La vera domanda è se l’NFT sia uno strumento utile o meno. Ma questo a me interessa poco in definitiva. Anche se dovesse rivelarsi una bolla durata pochi anni, rimane un fenomeno indicativo di tendenze più ampie. Nell’economia digitale il corpo, o per meglio dire la sua immagine, assume una centralità senza precedenti, e questo aspetto, per certi versi paradossale, è uno dei punti chiave di Land of Nod».

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