Design & Moda

Collane che diventano cravatte e altre meraviglie. Nell’atelier di Laura Cadelo niente è come sembra

15-02-2024

Di Laura Bessega
Foto di Beatrice Belletti

Quando si entra nel suo negozio in via Urbana 1F, niente è come sembra.

Dimenticatevi i classici anelli e orecchini. I suoi gioielli sono uccelli in formato naturale di perline coloratissime, strani occhiali metallici che ricordano le ambientazioni di Hugo Cabret, collane che si trasformano in cravatte, cinture, cappellini. In mezzo alle tante creazioni spicca un burqa rivisitato dal nome inequivocabile, Svelata, la cui  lavorazione leggera e trasparente, anziché nascondere, rivela la bellezza della persona. All’entrata, appesa al soffitto, la Crisalide, la pelle di San Bartolomeo che la tradizione racconta fosse stato scuoiato. Il suo corpo è una trama metallica dorata dal cui collo escono sottili steli fioriti.

Anche la proprietaria del negozio, Laura Cadelo, minuta, lo sguardo penetrante e un’allure che sembra attingere a un’altra epoca, non è esattamente ciò che ci si aspetta. Non solo jewel designer, ma anche scultrice, attrice, direttrice artistica, danzatrice Butoh, coreografa, scenografa, diplomata in mimo alla scuola Marcel Marceau di Parigi.

Come sei passata dal teatro all’essere scultrice e Jewel designer? Cosa ti porti della precedente esperienza teatrale nella tua attuale occupazione?

«Sono cose che ho fatto nel tempo. Costruivo scenografie. Lavoravo costantemente il materiale. Ogni tipo di materiale. Usavo molto la fisicità perché era un teatro visivo. All’interno della pièce teatrale, i costumi hanno un ruolo di trasformazione e drammaturgia. Le scenografie erano i prolungamenti del corpo. Uccelli che sbucavano da terreni di cartapesta. Gonfiabili alti 10 metri. Un abito che si trasformava in una nave dalla quale usciva un personaggio che poi rientrava. Ogni elemento non rimaneva mai se stesso.

Poi nel 2006 a Fiorano Modenese ho diretto un teatro. Quello è stato un punto di svolta. Al tempo facevo anche delle sculture e usavo molto l’acciaio armonico. È un metallo che, qualsiasi forma tu gli dia, quando lo lasci riprende esattamente quella che aveva prima. Diversi miei oggetti sono stati esposti in Triennale a Milano. Hanno cominciato a prendere una loro vita. Poi sono iniziate le pubblicazioni su AD, Vogue ecc. E così mi sono chiesta: se facessi delle sculture piccole? Sono passata dal macro al micro. Il gioiello non ha solo una finalità di estetica d’arredo e non aspetta solo di essere indossato. Ha una valenza anche un pò tribale. È un personaggio con una sua storia».

Sei figlia d’arte, tuo padre è stato un celebre fumettista e pittore. Tua madre, quand’eri piccola, è stata insegnante di scultura. La tua vita è sempre stata circondata di arte. Cosa rappresenta l’arte per te? Si può vivere di sola arte oggi?

«Cosa rappresenta l’arte per me? È difficilissimo rispondere. È come chiedere chi sei. Bisognerebbe aprire una parentesi filosofica. Per me l’arte è una comunicazione con se stessi. Insegna. Tutte le volte che esce qualcosa ti chiedi da dove viene.

Io finora ho avuto molta fortuna nel mio lavoro. Se non ci fosse stato il progetto dei gioielli, forse non sarebbe stato facile vivere di arte. O forse si. Chissà. Dipende dagli incontri. Come diceva il poeta brasiliano Vinicius de Demoraes, la vita è l’arte dell’incontro».

Nelle tue opere utilizzi principalmente rame, ottone, alluminio. Perché hai scelto di lavorare con metalli non preziosi? Perché creare piccole opere d’arte preziose usando materiali poveri? 

«Ma è questa la bellezza. Dov’è la cosa preziosa? È proprio sotto i tuoi occhi. Che cos’hai tu nella vita? Il tempo. Io metto la cosa più preziosa che abbiamo nel metallo più umile. Questo mi dà la libertà di fare ciò che voglio ma soprattutto di dedicare il tempo che è necessario a un’opera perché il cliente non pagherà il metallo ma pagherà il mio tempo».

Quali tecniche utilizzi per lavorare così finemente questi metalli? 

«Conosco tutte le tecniche base dell’oreficeria come la brasatura orafa, l’imbutitura, ogni tanto uso anche la fusione a cera persa. Ho lavorato con tutto. A una persona piacevano molto le mie sculture. Erano i miei primi gioielli. Mi è stato chiesto di fare dei prototipi per delle grandi case di moda. Andarono molto bene. La proprietaria del laboratorio ci guadagnava e io in cambio ho avuto carta bianca. Considera che sapevo già saldare, non partivo da zero. Ho studiato e sperimentato molto. Dopo le scenografie monumentali, è stato quasi liberatorio lavorare nel piccolo. Le macchine teatrali sono complessissime. Al di là dei colleghi e dell’aspetto umano, il teatro è una famiglia alla decima potenza, dove si muovono tantissime figure: il regista, il tecnico delle luci, il fonico, il musicista, gli attori, i danzatori, gli scenografi, i costumisti, l’amministrazione…è una macchina.  Quando si arriva al giorno della prova generale, è sempre un disastro. Il giorno della prima, invece, è tutto perfetto e tu ti domandi: come è potuto succedere? Il miracolo, ogni volta. È la magia del teatro. Succede perchè c’è una specie di colla alchemica che fa funzionare tutto».

Ti manca il teatro?

Ma io non sono uscita dal teatro. Sono uscita da quella parte che per me era diventata un pò troppo di presenza, gli spostamenti, i viaggi. Intorno ai 40 anni mi sono successe delle cose personali e diciamo che il destino ha scelto per me. A un certo punto tutto è diventato sempre più difficile e complicato mentre un’altra cosa diventava sempre più facile. Ognuno deve rendere conto a se stesso e aprirsi ai propri talenti.

Hai un maestro o qualcuno a cui ti sei ispirata per le tue creazioni? 

«Ne ho avuti molti. Anche quelli che non ho conosciuto. Per esempio, ho ammirato tantissimo Kazuo Ono che è un danzatore di butoh. O l’artista Louise Borgeois. I miei maestri sono sempre stati anziani. Quello che ho ammirato in loro è che alla fine della loro vita incarnavano perfettamente se stessi. Si erano aperti al loro essere senza tabù. Esprimevano qualcosa che era disincarnato. A 98 anni danzare sulla scena…come nel teatro c’è un’essenza, qualcosa che passa attraverso. È movimento, è energia». 

Cosa racconti attraverso i tuoi gioielli? 

«Storie di personaggi. Ogni storia ha un messaggio. Non è tanto la forma o il pensiero, è quello che tu vedi nell’oggetto, a seconda del momento della tua vita. Io creo pensando a qualcosa ma poi l’oggetto riflette la sua luce e ognuno ci vede la propria storia. Non è più la mia, non mi appartiene più. 

C’è un’empatia. Ci sono persone che detestano alcune opere o non le vedono per anni, ma, dopo un certo tempo, mi dicono: oh, questa è nuova! E invece era lì da sempre. In quel momento, quell’oggetto che magari è solo stato spostato, ha comunicato qualcosa perché loro sono cambiati. È come un incontro tra due persone».

Hai vissuto a Parigi, hai aperto il tuo laboratorio a Reggio Emilia e da cinque anni ti sei trasferita a Bologna. Cosa ti ha spinto a venire qui? Perché Bologna? 

«Sarà contenta Bologna perché era in ballottaggio con altre tre città: Lisbona, Parigi, Torino.

Io e mio marito abbiamo lavorato tantissimo a Torino. Abbiamo una parte della nostra famiglia lì. Mio marito ha abitato per 16 anni a Lisbona e per altri 16 a Parigi. Io ho studiato a Parigi. Parigi è casa, Lisbona per lui è casa e a me non  dispiaceva. È una città incredibile.

Ma ha vinto Bologna, l’unico posto dove non avevamo radici. E ha vinto per un’analisi a tavolino e di cuore. Ha vinto perché è una città molto a misura d’uomo. Ha un gran movimento ed è molto giovane rispetto alla media delle altre città italiane. La zona universitaria è all’interno del centro storico. E dove ci sono i giovani c’è anche bisogno di teatro, di cultura, di stimoli. Bologna ha tanti elementi interessanti che però non sempre riesce a valorizzare. La stavo osservando da diversi anni e si è risollevata da un momento difficile, ha avuto una spinta verso l’alto, verso la cultura. La cultura ha sempre risollevato Bologna».

Mi congedo da Laura chiedendole un aneddoto. Ne ha tanti, e sono legati ai momenti di trasformazione, quei momenti che ti permettono di vedere tutto in modo diverso, incluso te stesso. Me ne racconta un paio, ma preferisce che non li scriva perché «se leggi una storia la puoi capire solo intellettualmente, ma vorrai vivere anche tu quel momento di trasformazione. E finirai col cercarlo. Ma se lo cerchi non puoi trovarlo perché non eri lì». 

Condividi questo articolo