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“Lazarus”, l’opera-testamento di David Bowie al Teatro Arena del Sole. Intervista a Manuel Agnelli

10-05-2025

Di Silvia Santachiara

Ci sono opere che non si guardano soltanto: si attraversano.

Lazarus, l’ultimo lascito artistico di David Bowie, scritto poco prima della sua scomparsa insieme al drammaturgo irlandese Enda Walsh, è una di queste. Uno spettacolo che non parla semplicemente della morte, ma anche di quello che rimane. Un testamento artistico che vibra come una costellazione in cui ogni parola, ogni silenzio, ogni nota sembra risuonare oltre e attraverso il tempo.

Sarà in scena fino a domenica al Teatro Arena del Sole per la regia di Valter Malosti, direttore di ERT / Teatro Nazionale, che lo riporta in scena ancora una volta, dopo il debutto nel 2023.

Entrare in questo universo per Manuel Agnelli, cantautore e storico frontman degli Afterhours che interpreta Newton, non è stato un semplice ruolo da interpretare. È stato un incontro, un attraversamento intimo e profondo in cui la musica, il dolore, la libertà e la fine si mescolano in un’unica corrente.

Il protagonista attraversa un flusso di ricordi e visioni. Nel suo viaggio onirico e allucinato, tra sogni, incubi e frammenti di realtà, affronta i temi dell’identità, della solitudine, del desiderio di liberazione. Rappresenta il conflitto umano tra il voler andare oltre il dolore e il restare intrappolati in esso. 

In questa intervista, Agnelli ci accompagna lungo il crinale che separa la materia dall’energia, la forma dal significato, l’artista dall’essere umano. Parla di alienazione e di rinascita, del tempo che finisce e di quello che ci trasforma, della libertà e della magia dell’imprevisto. E lo fa con la lucidità di chi ha scelto, da sempre, di usare la musica per vivere, e non di vivere per fare musica.

Un dialogo che non dà risposte, ma ci lascia domande. E che, come lo spettacolo, ci fa alzare da quelle poltrone rosse con una consapevolezza potente: l’arte che resta non è quella che si può spiegare, ma quella che ci attraversa e ci trasforma.

LAZARUS©FabioLovino

Manuel, Lazarus non è solo uno spettacolo: è quasi un testamento artistico. Parla di morte, ma anche di ciò che resta. Che cosa ha significato per te entrare in questo mondo creato da Bowie e cosa pensi che resti di un artista, quando scompare?

“Di un artista rimane sostanzialmente l’energia. Le cose che fa ci sono, ma poi in un modo o nell’altro è normale che vengano riassorbite, cambino di significato anche in base al contesto storico: i tempi cambiano, la gente cambia e cambia anche il modo in cui vediamo le opere. Le cose materiali finiscono per scomparire, l’energia invece è la cosa principale, quella che riusciamo a trasmettere all’universo”.

Che responsabilità hai sentito?

“Se l’avessi sentita nell’interpretare questo ruolo probabilmente non mi ci sarei nemmeno buttato. Sono aiutato dal fatto di essere stato da sempre un grande fan di Bowie per cui ho il rispetto che si deve ma nello stesso riesco ad affrontare queste cose senza rimanerne schiacciato, che forse era il pericolo più grande. Reinterpretare Bowie secondo me vuol dire trasmetterne l’energia, più che il linguaggio, perchè questo è inarrivabile. È inutile tentare di imitare Bowie, si rischia di essere ridicoli”.

Nel tuo percorso hai spesso dato voce a temi profondi e alle nostre contraddizioni e in Lazarus, ho ritrovato molti di questi temi: l’alienazione, il vuoto di senso, la solitudine, la ricerca di una via di fuga, il fallimento. Quale hai sentito più tuo e  perchè, secondo te, è così difficile riconoscersi ed essere liberi. Cosa ci ha insegnato Bowie in questo senso? 

“Il tema della libertà è molto complicato ed è molto importante allo stesso tempo. Io mi riconosco in diversi di questi temi e non in uno solo: la lontananza da me stesso, da quello che io volevo diventare e sono diventato – non ho più neanche un’idea di che cosa volessi diventare – la lontananza da casa, dagli amori, il senso di fallimento. Sono tutti temi che appartengono ad un certo tipo di generazione, quella di chi ha più o meno la mia età. Non avrei mai potuto interpretare un ruolo del genere a vent’anni perchè non avevo il percorso che serve per interpretare un personaggio del genere”.

Newton non può morire e questa è la sua condanna. Un invito anche a riflettere sul valore del tempo e dei ricordi. Ripensando anche al tuo percorso, che rapporto hai con il tempo e con la fine delle cose?

“È una domanda un pò imbarazzante perchè da una parte sono convinto che più invecchi e più ti manca il tempo, dall’altra è anche necessario avere coscienza della fine delle cose per poter ripartire, per fare altro. Per me chiudere le cose vuol dire darmi la possibilità di vivere qualcosa di nuovo, quindi le cose di solito le finisco, le chiudo, sono abituato a farlo. Quando inizi ad avere sessant’anni inizi poi a pensare ad altre cose, alle quali prima non pensavi: alla fine, per esempio, che è anche uno dei temi di quest’opera. La fine del percorso, cosa c’è dopo, se ci sono altri mondi, altre situazioni, se è una trasmissione di energia. È pieno di metafore questo spettacolo: c’è l’aldilà, il pianeta lontano, la famiglia abbandonata sul pianeta. Non ti dà nessun tipo di risposte, ti regala tantissime domande e un sacco di energia, che forse è quella che serve ed è indispensabile per vivere, al di là di tutte le altre classificazioni che vogliamo provare a fare”.

L’impotenza di Newton ci mette anche di fronte al crollo dell’illusione di poter controllare tutto e questo oggi è un tema molto attuale. Cerchiamo di farlo sempre di più anche attraverso la tecnologia. Cosa ne pensi? c’è ancora spazio per l’immaginazione, il mistero, l’imprevisto? 

“Io penso di si, penso che le persone cambino anche in base a quello che hanno intorno e al modo in cui si ritrovano costrette a vivere. Credo che ci sia spazio per il mistero, sicuramente, e anche per l’improvvisazione. Anche se negli ultimi anni c’è stata una mania di controllo, credo che ci sia un ritorno al lasciarsi andare, e la vedo come la chiusura di un cerchio. Bisogna fare dei grossi sforzi per accettare di non riuscire a controllare tutto però questo lascia spazio alla magia, a qualcosa che non avevi previsto. Rischi ma superi i tuoi limiti. Nell’arte sicuramente. Quello che tu sai fare è il tuo limite, se lasci spazio a qualcosa che non sai fare e che non puoi controllare può darsi che entri qualcosa di magico che non potevi prevedere, che non potevi creare. è un rischio che vale la pena correre, per arrivare a fare qualcosa di oltre”

Nel tuo lavoro con Casadilego e il resto del cast c’è anche un confronto  generazionale. Ho pensato anche al tuo progetto “Carne Fresca”, un progetto che va controcorrente rispetto ai canali attuali di scoperta dei talenti. Se potessi dire una cosa sola ad un artista emergente che vuole ‘restare libero’, oggi, quale sarebbe?

“Gli direi di rimanere libero, di fare quello che vuole. Come ha detto Bowie prima di morire: fate quello che volete, non fate considerazioni di convenienza, di mercato, che sono comunque inevitabili, ma alla fine fate quello che volete. Io ho sempre fatto musica per fare quello che voglio nella vita e non il contrario, non ho vissuto per fare quello che voglio nella musica. Fare quello che si vuole nella musica è molto facile, basta farlo. Farlo nella vita è molto più difficile. Ho sempre usato la musica per la vita e non il contrario. Nel ‘fate quello che volete’ io ci lego il ‘fate quello che volete nella vita’”.

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