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“Anche scrivendo si combattono gli stereotipi”. Intervista alla regista e sceneggiatrice Margherita Ferri

10-09-2021

Di Beatrice Belletti
Foto di Beatrice Belletti

Tra le ospiti della talk: “Cinema, fotografia e visual art: tre artiste a confronto” per la primissima serata della nostra rassegna About Stories a Porta Pratello, il 16 settembre, ci sarà la regista e sceneggiatrice Margherita Ferri.

Qui il link all’evento.

Nell’intervista che segue ci racconta la sua storia, che l’ha condotta alla realizzazione del suo primo lungometraggio narrativo: Zen sul ghiaccio sottile prodotto da Articolture Bologna e Biennale di Venezia, con cui ha vinto il premio di produzione Biennale College Cinema 2017/2018. Il film è stato presentato in anteprima al 75° Festival del Cinema di Venezia nel 2018. È regista, tra gli altri, anche di due puntate di Zero, serie originale Netflix e nel 2021 ha iniziato una collaborazione come regista con Amazon Video.

Margherita nasce a Imola, è regista e sceneggiatrice, ma da piccola voleva “fare la trapezista del circo”. Il suo approccio alla cinepresa inizia girando cortometraggi al liceo con un gruppo di coetanei «nella videoteca pubblica cittadina, in cui prendevamo in prestito l’attrezzatura dal Comune che in epoca pre-digitale erano le cassette in VHS-C e Hi8 (il formato analogico di recording)».

L’attrazione per le arti performative era già evidente seppur contaminata da altri stimoli: «ho pensato di fare la cantante, l’attrice – mi dichiara, e continua – Quando sei piccolo non hai ancora un’identità formata, avevo iniziato a scrivere per il giornale locale e frequentavo il gruppo di teatro, non sapevo esattamente che cosa volessi fare, poi ho capito che volevo continuare questa strada dietro la macchina da presa».

Come è stato il tuo percorso formativo?

«Non mi sono iscritta al Dams, mi sembrava riduttivo studiare solo una cosa. Sono entrata a Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna, e anche se poi soffrivo tantissimo perché volevo fare cinema, in realtà quella formazione è rimasta dentro di me ed è stata fondamentale proprio come sguardo sul mondo e approccio critico».

Frequenta in anno di scambio la UCLA School of Film and TV grazie a una borsa di studio, in cui scrive e dirige due cortometraggi narrativi e un documentario. «Ho deciso di sfruttare al meglio quel tempo in una delle scuole migliori di cinema al mondo, ho fatto qualsiasi cosa».

Margherita si trova a 22 anni con già una solida esperienza pratica, «ma siccome l’Italia non è un paese per giovani, ho iniziato presto e ci ho messo comunque tanto» mi racconta ironicamente.

Il curriculum di Margherita vanta esperienze lavorative vaste, tra cui regia, produzione, insegnamento, per realtà quali il Gender Bender Festival, MTV e Rai.  Frequenta il Corso di Regia presso il Centro Sperimentale – Scuola Nazionale di Cinema di Roma, dirige cortometraggi e scrive sceneggiature sotto la supervisione del regista Paolo Sorrentino, che considera il suo Maestro. I suoi lavori vengono riconosciuti con numerosi premi tra cui la menzione speciale al Premio Solinas Storie per il Cinema, Premio Tonino Guerra per la sceneggiatura e il primo premio del concorso “Are you series?” tenuto da Milano Film Festival».

 

Non essendo nativa digitale, il tuo primo approccio è stato con l’analogico, me lo racconti?

«Io sono un po’ boomer, sospettosa verso le novità, sono rimasta più legata al concetto dell’analogico anche se in realtà il cinema richiedo uno sforzo produttivo così grande che non puoi dire: giro tutto in pellicola.

Ne ho avuto l’opportunità al Centro Sperimentale, ed è stata un’esperienza altamente formativa per l’approccio alla scena e alla regia, perché la pellicola è finita mentre ora il tuo girato è potenzialmente infinito, puoi fare take di 7 minuti, devi solo comprare più hard disk.

Prima partivi già con un numero di ciak definito per avere ‘quella buona’, le due domande in relazione alle risorse che un regista in epoca pre-digitale si poneva erano: Quanta pellicola ho? E quanto tempo ho? Quello determinava quanto materiale potesse girare».

[La formula matematica è relativamente semplice: la sceneggiatura ti suggerisce 10 minuti, sai quanti metri di pellicola hai comprato, e di conseguenza sai di avere una media di x ciak per scena]

Quanto era più importante la fase preparatoria rispetto a oggi?

«L’approccio è diverso, ora lo dico con nostalgia, ma comunque anche per il mio film, girato in digitale, mi sono dovuta preparare al dettaglio. Avevamo una crew piccola, di una ventina di persone, con tempi molto stretti, è stato scritto anche pensandolo per una produzione indipendente, in questo caso io e Chiara Galloni (fondatrice di Articolture di Bologna) abbiamo sviluppato una storia con il micro budget a disposizione».

 

Descrivimi il cuore di questo film.

«È una storia di formazione e di ricerca della propria identità, che ruota attorno a queste due adolescenti in un piccolo paese di montagna, abbiamo girato a Fanano e Castiglione dei Pepoli, sostanzialmente diverse da tutti gli altri coetanei.

Zen, la protagonista, è diversa nell’aspetto estetico quindi è vittima di bullismo perché non conforme allo stereotipo della ragazza, mentre Vanessa è un po’ la ragazza popolare che però inizia a sentire che il ruolo disegnatole addosso dall’esterno non è più per lei. Da lì nasce un’amicizia, e succedono dei coming out. È la storia di due persone che si riconoscono nella diversità».

Il casting come è stato fatto?

«Affiancando un percorso di laboratori nelle scuole di montagna sui temi del film: identità di genere, bullismo omofobico, orientamento sessuale, assieme al Cassero.

Ho fatto anche casting call mirate nei gruppi Facebook di comunità Lgbtq+ di cui io faccio parte, cercavo una protagonista che avesse delle caratteristiche fisiche specifiche un po’ tomboy. Non me la sentivo di prendere un attrice, cercavo un elemento di realismo, non necessariamente legato alla disforia di genere [La protagonista si rivela transgender F2M ndr.] volevo che il realismo fosse determinato da esperienze emotive».

 

Come hai vissuto la pandemia?

“Mi ritengo fortunata, dopo aver fatto Zen e averlo presentato in tanti festival di opere prime, mi hanno chiamata per girare due puntate della serie Netflix Zero sapevo che il nostro set avrebbe riaperto, per me la pandemia è stata una pausa non un baratro.

Lo spettacolo dal vivo, musica e teatro hanno sofferto più del cinema, gli esercenti invece sono in crisi. Si è persa la familiarità e l’abitudine a quel tipo di evento fisico, è una ripresa lenta, mentre la produzione di contenuti per piattaforma o tv è aumentata».

Cinecittà vs Netflix è una dicotomia che senti?

«Tantissimo. I grandi player stranieri (Amazon, Netflix, Disney +) sono arrivati in Italia e hanno investito tanto, che è un bene per i nostri lavoratori e per il nostro mercato, soprattutto nelle nuove generazioni e nella diversità, sia di genere sia di età.

Sicuramente hanno cambiato il volto della produzione audio-visiva in Italia, il problema è che rischiano di fagocitarlo perché i produttori non avendo più un terreno facile nella distribuzione sono più interessati a creare prodotti seriali per grandi committenti in cui l’autorialità è in secondo piano.

Allo stesso tempo hanno rimescolato le carte, prendi Netflix, vince a Venezia con Cuarón [il regista messicano Alfonso Cuarón vince il Leone D’Oro alla 75esima edizione del Festival con Roma ndr.] e adesso produce Sorrentino.

La sua peculiarità sta nella capacità di produrre contenuti molto generalisti ma anche molto indipendenti con una vision autoriale forte. Per esempio Transparent per Amazon è un prodotto seriale ma personale e autoriale, lo cito perché fa parte di quel Queer cinema che a me piace».

 

Quindi cosa guardiamo stasera?

«Sono difficile con le serie ho gusti particolari! Direi: Sex Education, le serie tedesche Come vendere droga online e Dark. Non mi piacciono le serie troppo melò e relazionali, ma questo è un mio limite – ride – e The Crown, una delle serie migliori sulla storia della corona, è il ritratto di una donna che si trova in un mondo di uomini a dimostrare di poter gestire il potere nonostante tutti la trattino come una principessina».

Hai mai vissuto discriminazione per il tuo orientamento sessuale?

«No, l’ho sempre vissuto più in quanto donna, che in quanto lesbica; anzi forse è più facile, perché a livello di stereotipi nella mentalità comune si associano le lesbiche a qualcosa di più vicino alla maschilità.

A me non è mai successo nulla di agghiacciante, ma commenti fin dagli esordi: “perché vuoi fare la regista? Le registe sono poche e fanno schifo” era una provocazione in quel senso, però è qualcosa che ti senti dire, o peggio ancora, non ti senti dire, nel senso che non ti chiamano proprio.

Ad esempio quando lavoravo come videomaker ero chiamata solo per angoli con sensibilità femminile, che avessero a che fare con mamme, bambini, suore, e io magari volevo girare il video sul rugby.

Quindi lo scontro con lo stereotipo di genere è avvenuto quando ho scoperto che c’era la categoria di chi lavora normalmente: il maschio, e poi per le eccezioni c’era la ricerca di nicchia, che è la film-maker donna».

 

Come è cambiato lo scenario oggi?

«Credo sia molto cambiato l’atteggiamento dei produttori, mi dispiace un po’ dirlo, ma perché sono arrivati gli Americani a imporlo.

Io mi accorgo di avere un maschilismo interiorizzato, un po’ come tutti, se penso a chi chiamare come direttore della fotografia il primo pensiero va a uomo. È frutto di un’abitudine, di cerchie di conoscenze e networking, ma serve riconoscere questa abitudine come bias, e cambiare punto di vista. I cambiamenti succedono perché qualcuno li impone, non avvengono così con gentilezza.

Ci sono persone come me e come altre che comprendono la necessità di avere un mondo del cinema più rappresentativo. E rompono le palle.

Tutti dovrebbero avere l’opportunità di dare una propria rappresentazione del mondo, perché alla fine fare il regista è questo».

Come si esce da questo loop?

«Servono delle rotture, percepite da alcune persone come delle rotture di coglioni (ride).

Grazie anche a femministe e critica attivista sorge quel punto di vista nuovo che magari viene percepito come fastidioso, ma se mancasse non ci sarebbe dialettica, ed è il dialogo che poi va a costruire una nuova produzione culturale.

Zero ad esempio era un team eterogeneo e divertente, con una chiara agenda etica, tra il gruppo di registi scherzavamo: c’è la quota donna, la quota gay, la quota papà, e la quota immigrato. Ed è giustissimo portare questo cambiamento nell’industria».

 

Senti la pressione di fare attivismo attraverso la tua arte?

«No, io faccio la regista, racconto storie, non faccio attivismo con una pagina Instagram, ma credo che se anche pensi di non farlo, lo fai.

Quando scrivo una storia avrò uno sguardo queer perché è il mio sguardo, non è qualcosa di programmatico. La cosa importante è il personaggio, l’idea artistica, l’emozione. Poi è ovvio che l’idea politica sia agganciata alla tua opera perché è agganciata a te stesso. C’è confusione sulla parola stessa in Italia: politico viene subito associato a partitico, in realtà è avere consapevolezza che ciò che fai è politico perché pubblico. In quello sono consapevole e cerco di riportarlo anche in tutto il percorso produttivo.

Anche scrivendo si combattono gli stereotipi, nella scelta dei ruoli, spesso la rappresentazione mediatica non rispecchia la realtà che viviamo tutti i giorni.

Per la web series scritta con Davide Labanti e Renato Giuliano, STATUS, girata nel 2014 in Albania, io proposi la figura di una spacciatrice donna, e ci furono obiezioni sul poco realismo in quella società molto maschilista, ma per me era molto più interessante e alla fine quel personaggio è stato femminile».

 

I 5 nomi che ti hanno cambiato in cinematografia queer e femminile?

«1. Gus Van Sant è il mio riferimento fondamentale.

2. Xavier Dolan, un po’ meno della mia formazione ma Mommy (2014) e Laurence Anyways (2012) sono tra i suoi film più belli.

3. Céline Sciamma, probabilmente la regista che mi ha più influenzato, di cui vidi Water Lillies (2007) e rimasi folgora, poi ebbi l’occasione di incontrala a Bologna. Lei crea dei film in cui è sempre la protagonista a portare avanti la storia, non ti accorgi alla prima visione che porta con sé dei valori rivoluzionari.

4. Andrea Arnold, regista inglese bravissima di American Honey.

5. Valentina Pedicini, documentarista nostrana molto brava, purtroppo scomparsa l’anno scorso».

La GenZ si è imposta nella narrazione social(e) con un discorso sulla fluidità di genere a cui le precedenti generazioni non sono abituati. Come la vedi?

«La cosa bella delle nuove generazioni è che non fanno nemmeno coming-out, magari non ne sentono il bisogno.

L’etichettarsi é un processo storico necessario, secondo me, dalla persecuzione dell’omosessualità all’invisibilità, qualcuno ha dovuto darsi delle etichette per dire “Hey esistiamo!”. È poi giusto che a un certo punto questa etichetta diventi superflua, ma qualcuno prima ha dovuto lottare per averla riconosciuta.

Il movimento è cambiato molto ed è variegato, leggevo un articolo su Instagram sul perché la L (di Lesbiche) venga prima delle altre lettere nell’acronimo. Raccontava che il movimento omosessuale era molto maschilista fino agli anni 80 e non era compatto. Il movimento lesbico era relegato nell’invisibilità, un tema su cui è stato scritto molto, perché l’omosessualità maschile è sempre stata demonizzata in quanto minaccia alla virilità della società patriarcale, mentre quella lesbica, in quanto non minaccia, è stata ignorata.

Le cose sono cambiate con la pandemia dell’HIV negli anni 80, quando il personale medico si rifiutava di assistere i pazienti affetti da AIDS fu proprio quello lesbico a essere in prima linea, anche organizzato raccolte e donazioni di sangue (essendoci bisogno erano le lesbiche che si prodigavano perché i gay non potevano donarlo secondo i pregiudizi del tempo). A riconoscenza di questo impegno sociale e umano è stata anteposta la L nella sigla».

 

La tua prima cotta attraverso lo schermo?

«Alanis Morrisette, Ani DiFranco e Sporty Spice (Mel C). Mi sono innamorata follemente del film Ragazze Vincenti con Gina Davis e Madonna, del 1992».

 

Se la tua vita fosse un film chi lo girerebbe?

«Di solito mi piacciono le storie che finiscono male, ma per essere ottimisti direi Céline Sciamma».

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