C’è un tizio vestito da sciamano che assalta Capitol Hill; ci sono Russia e Ucraina che combattono un conflitto parallelo a suon di meme; e poi c’è Enrico Letta che si schiera “tutta la vita” a favore del guanciale nella carbonara. Una barzelletta? No, è la cronaca di una realtà che vira all’assurdo, al grottesco, al punto che alcuni teorizzano che la nostra sia la “timeline sbagliata”, una sorta di realtà parallela a quella “giusta” in cui le cose vanno come dovrebbero andare.
Come siamo arrivati a questo punto? Su questo si interroga Mattia Salvia, nel suo saggio Interregno. Iconografie del XXI secolo, che presenterà a Bologna alla libreria Modo Infoshop l’11 novembre alle 19.
Per capire cosa ci aspetta abbiamo fatto qualche domanda all’autore.
Iniziamo proprio da questa “timeline sbagliata”, ci aiuti a mettere a fuoco il concetto?
«Il concetto di timeline sbagliata è ormai entrato nella coscienza collettiva occidentale e serve ad esprimere lo sgomento nei confronti di un momento storico – quello attuale – che ci appare incomprensibile. Ovviamente non esiste alcuna timeline sbagliata, ma continuiamo a raccontarci questa storia per evitare di affrontare il presente e per non dover accettare che ad essere “sbagliato” fosse il periodo da cui usciamo, quegli anni ‘80 e ’90 della “fine della storia”, depoliticizzati, in cui andava tutto bene e non c’erano le grandi domande su quale fosse la migliore forma di organizzazione sociale».
E come si coniuga questo con il concetto gramsciano di interregno?
«La timeline sbagliata è una riscrittura contemporanea dell’adagio di Gramsci “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Parlando di timeline sbagliata vogliamo descrivere il nostro interregno cent’anni dopo Gramsci, il libro infatti parte da fenomeni morbosi di vario genere e cerca di tracciare le coordinate per orientarsi nell’interregno che è il nostro presente».
Come arrivi a selezionare certi fenomeni piuttosto che altri?
«Ciò che cerco di fare è catturare le temperie culturali, ciò che va a costruire la coscienza e la memoria collettiva. I fenomeni di cui parla il libro sono emblemi di momenti della coscienza collettiva. Lo sciamano di Capitol Hill, ad esempio, è una cosa che tutto il mondo ha visto e che tutto il mondo ricollega a certi fenomeni politici: è parte di una cultura globale.
In passato ciò poteva essere fatto dallo scrittore che scrivendo di persone normali nella Vienna di fine ‘800 catturava il mood culturale dell’epoca; oggi si tratta di mettere insieme tutti gli elementi virali che costituiscono il mood contemporaneo, in quanto la loro viralità è causata dal fatto che esprimono significati profondi comuni a tutta la società».
C’è dunque una forte interdipendenza tra il nostro “spirito del tempo” e la viralità che si concretizza in internet. Credi che sia possibile raccontare una storia dell’umanità contemporanea anche prescindendo da internet?
«Secondo me no! Leggevo di studi condotti nel terzo mondo da cui emerge che la gente considera Facebook e internet sinonimi perché il loro utilizzo di internet è limitato a Facebook. Oppure, il solo mandare un whatsapp di buongiorno tutti i giorni diventa una parte consistente della vita; togliendo internet verrebbe meno una parte importante di vita.
Allo stesso tempo internet è solo una tecnologia; possiamo parlare della storia degli ultimi 200 anni senza pensare alle automobili? No! Ma non significa che le automobili siano le sole determinanti dell’esperienza umana. Allo stesso modo internet è una condizione necessaria ma non sufficiente a spiegare l’esperienza umana».
Il libro, come dice il titolo stesso parlando di iconografie, considera l’estetica elemento di primaria importanza. Che ruolo ha l’estetica nella comprensione del presente?
«La nostra è sempre più una cultura visiva; ciò premesso, il libro non parla di storia del costume o dell’immagine, è piuttosto un libro di filosofia della storia. Le immagini dei fenomeni di cui parlo sono icone per la loro capacità di far vedere a colpo d’occhio dei significati sociali. In un capitolo parlo dell’immagine dello sciamano di Capitol Hill. Perché diventa virale? Perché in essa visualizziamo la rivolta populista. Ma perché arriviamo a visualizzare la rivolta populista nello sciamano? È questo l’aspetto che mi interessa, non tanto soffermarmi sul fatto che indossi le corna o la bandiera».
La cultura visiva, l’immagine che diventa icona, mi fanno pensare anche al fenomeno di spettacolarizzazione di cui già parlava Debord (v. La società dello spettacolo), configurando l’uomo come spettatore sempre più passivo dello Spettacolo. Qual è secondo te il nostro ruolo di fronte alle immagini, allo Spettacolo?
«Non abbiamo un ruolo specifico, ci sono molti fattori che lo determinano. Quando un colpo di stato diventa un challenge su Facebook, ciò è possibile perché esiste un vuoto tra gli attori politici e i cittadini. Questo vuoto può essere riempito dalla spettacolarizzazione delle lotte di potere di chi è in cima alla piramide rendendo spettatore chi sta alla base. Ma nel momento in cui si riesce a riempire questo vuoto con la partecipazione dei cittadini alla politica, la dinamica di spettacolarizzazione perde le sue fondamenta: è possibile spettacolarizzare solo cose alle quali non partecipi, nel momento in cui partecipi non sei più spettatore.
Infatti questa dinamica emerge dai decenni della fine della storia: non ci sono stati più partiti di massa, noi ci siamo ritirati nel privato diventando sempre meno partecipi della politica e sempre più spettatori».
Una domanda di rito quando si parla di libri: qual è stata la genesi del tuo saggio?
«Il libro è nato come un articolo, poi diventato un progetto di libro molto teorico e infine si è trasformato nell’analisi dei fenomeni dell’interregno.
Il proposal del libro è girato un po’, ho avuto degli interessamenti tra cui un grosso editore che però non mi convinceva granché perché troppo commerciale. Un po’ per caso ho scritto a Valerio Mattioli, editor di NERO Editions (casa editrice che opera nel mondo dell’arte internazionale, della critica e della cultura contemporanea, nda) che conoscevo per precedenti collaborazioni, chiedendogli se il libro potesse interessargli e alla fine abbiamo fatto il libro insieme.
NERO… è NERO! Per ciò che fa era perfettamente in linea con le tematiche del libro rispetto ad un editore commerciale e mi piaceva molto l’idea di firmare un libro che potesse entrare nella stessa collana di grandi nomi come Mark Fisher (Realismo Capitalista, nda)».
Pensando al pubblico, mi ponevo la questione dell’accessibilità di questo libro. Parli di tematiche complesse in forma di trattato filosofico. Il lettore dovrebbe spaventarsi?
«Le prime bozze erano in effetti un po’ dense, fosse uscito in quel modo non se lo leggeva nessuno! È stato difficile renderlo accessibile ma penso di avercela fatta. Pensa che c’è una recensione cattiva su goodreads.com che dice che il libro è troppo semplice, forse ho addirittura esagerato!».
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