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Mircoisdead è l’artista dietro l’ultimo album de Lo Stato Sociale, tra icone pop e arte classica. L’intervista

30-06-2021

Di Luca Vanelli
Foto di Mircoisdead

“Puntavo ad essere un campione dei Novanta, ma persi come quel campione dell’Olanda.
Cacciato via dalla stazione di Egolandia.
Passavano sopra il mio nome in retromarcia.
Dicevano quello è uno zero, zero dal microfono.
Lontano dallo zero, zero, del binocolo.
Rinato come Zero.
Dio benedica gli anni zero.
Affanni e zelo. Campione dei Novanta.
Sai, a volte il traguardo comincia da un passo falso.
Fai un percorso diverso da quello che ha fatto un altro”.
(“Campione dei novanta” – Caparezza)

Dio benedica gli anni zero. Le ripartenze, i fallimenti. Partire da zero per affermarsi. Non è successo solo a Caparezza, come racconta nel suo ultimo album. È successo anche a chi ha fatto degli anni 90 e della cultura pop parte fondante della propria arte ed espressione artistica.

Mirco Campioni, conosciuto anche come Mircoisdead, è a tutti gli effetti un multipotenziale: pittore, scultore, tatuatore, batterista.. di recente si è reinventato illustratore per creare la copertina del nuovo album de Lo Stato Sociale. Negli ultimi quindici anni ha passato il suo tempo a mescolare icone pop, legate soprattutto al mondo del cinema, e le più grandi opere d’arte di tutti i tempi, da Michelangelo a Caravaggio.

Dopo un “lavoro da cartellino” che gli stava stretto, nel 2012 ha resettato tutto ed è partito da zero. Ha iniziato il suo percorso nel mondo del tatuaggio al Sundance Tattoo Studio, dove la pelle delle persone è diventata la sua nuova tela.

Mirco è un chiaroscuro: dietro le sue opere colorate e spesso giocose, c’è un fondamento interiore molto pessimistico. «Siamo tutti già morti» è la consapevolezza che lo accompagna ogni giorno. Eppure Mirco rimane un abile prestigiatore, perché anche solo al telefono trasmette un entusiasmo contagioso. Forse è anche qui il segreto di un bravo artista, ma soprattutto di un bell’essere umano.

Partiamo dal tuo tratto caratteristico: nelle tue opere c’è una continua tra icone pop e arte classica o contemporanea. Sacro e profano che si mescolano. Non hai mai temuto di essere considerato un eretico? Di far storcere il naso ai puristi?

«In realtà no, non mi è mai capitato. Mi ricordo solo una volta in cui le critiche però le ho ricevute non dai puristi dell’arte, ma dai puristi di Star Wars (ride ndr). Quello è un immaginario enorme e molti fanatici lo vivono come una religione. Si parla però solo di qualche commento da social, per il resto non non ho mai avuto problemi».

 

Cosa significa per te questo mix?

«Per me è un tributo a tutto ciò che ho sempre amato in maniera viscerale. Da un lato c’è una passione intensa, legata anche alla mia infanzia, di tutte le icone che dagli anni 60 agli anni 90 mi hanno segnato dentro. Soprattutto quelle legate al mondo del cinema. Dall’altro c’è il rispetto e l’eterna riconoscenza per tutti quegli artisti che mi hanno insegnato ad apprezzare l’arte del bello. Parlo di Leonardo, Michelangelo e degli artisti dal 600 all’800, dove penso si sia raggiunto il picco di espressione massimo sulla ricerca figurativa dell’anatomia».

Mi sembra quasi un tentativo di fissare questi elementi pop, per te così cari, nel tempo. Fonderli ai miti e cercare di renderli immortali.

«Magari, sarebbe bellissimo. Ormai inventarsi qualcosa è davvero molto difficile. Come diceva Andy Warhol, serve dare una seconda vita alle immagini riconosciute dal popolo. Ecco, mi piace pensare di poter dare il mio contributo a dare una seconda vita ai personaggi cinematografici che ho amato. Amo entrambe le cose, il classico e il pop. Tutti ci si riconoscono e quindi cerco di dare una nuova interpretazione a quello che potrebbe essere questo tipo di immagine».

Sono rimasto molto colpito dalla tua opera Working class hero (sculptrooper). In un’intervista di qualche tempo fa stavi per parlarne, ma poi non l’hai approfondita e mi hai lasciato il dubbio. Di cosa volevi parlare?

«Principalmente il mio è un tentativo di denuncia del nostro sistema attuale. Nell’opera si vede la fusione di due personaggi: lo stormtrooper e il David. Il primo è un soldato, elemento indistinto di un esercito tutto identico e mi sembrava il simbolo ideale della classe operaia: eserciti di persone anestetizzate dal sistema e dal lavoro. Il secondo, invece, è il simbolo supremo di bellezza.

Mettere il casco dello stormtrooper a capo del David è stato il mio tentativo di dare un riconoscimento ad un pezzo di società che viene considerato senza valore. Vuole essere la rivincita di questa classe che scala i vertici e arriva fino alla bellezza del David. Per quanto possiamo sembrare tutti uguali, formiche inutili e sottoposti a qualcuno più in alto di noi, alla fine siamo esseri umani e la possibilità di poter avere una rivincita sul mondo la può avere chiunque».

Mi hai fatto venire in mente un’altra tua opera: La rivolta dei dipendenti, dove la Giuditta che decapita Oloferne viene sostituito dagli stormtrooper che decapitano Darth Vader.

«Sì, i messaggi sono molto legati. In quel momento mi trovavo a fare il “lavoro vero”: facevo qualcosa che non mi apparteneva per niente, ma lo dovevo fare per poter campare. Ho vissuto sulla mia pelle quel meccanismo piramidale per cui tu sei l’ultima ruota del carro e devi seguire quello che ti dicono ai vertici, senza fiatare.

Allora ho voluto creare questa metafora dove i due “dipendenti” dell’Impero, come le pedine umane che vanno a fare un lavoro controvoglia, mentre vengono repressi covano un risentimento per i vertici. Quindi ho messo in scena i sottoposti dell’Impero che tranciano la testa del loro capo supremo, del loro patriarca».

 

Sempre nell’intervista di cui parlavo prima, mentre raccontavi della nascita del tuo nome “Mircoisdead”, ad un certo punto te ne sei uscito con la frase: «Prima di tutto, siamo già tutti morti». Ti va di parlarmi di questa cosa?

«In quella frase si manifesta il mio lato più oscuro. Perché siamo già tutti morti? Perché in realtà questo lasso di tempo che a noi sembra lunghissimo, una vita intera, in realtà non dura niente. Siamo un istante nel lungo percorso della vita dell’universo.

Tutto quello che l’uomo crea fondamentalmente ha due possibilità: o viene ricordato nella storia oppure finisce nell’oblio. Purtroppo la maggioranza non emerge e vive nel ricordo di persone che prima o poi moriranno. Io volevo mettere in risalto il fatto che effettivamente, purtroppo o per fortuna, verremo tutti dimenticati».

Per quanto questo processo sia naturale, questa cosa continua a spaventarci tremendamente. Che ne pensi?

«Semplicemente facciamo parte di un ciclo vitale e mi rendo conto che siamo destinati a finire. Nessuno però vuole pensare a questa cosa. Siamo tutti terrorizzati dall’idea dell’oblio. L’essere umano ha questa presunzione di voler farsi ricordare.

Eppure alla fine la morte è l’unica cosa che ci accomuna a tutti. E questo può creare una connessione fra tutti quanti, come la forza di Star Wars. Ne parlo spessissimo con gli amici, ma non siamo ancora venuti a capo di tutto».

 

Tornando a qualcosa di più leggero… Il tuo legame con Bologna è molto forte e di recente la tua strada si è incrociata con una delle band simbolo della città: Lo Stato Sociale. Come ti sei trovato a lavorare con loro?

«Pensa che mi ha contattato Checco dopo quindici anni che non lo sentivo: andavamo alle medie insieme a Minerbio. Mi ha chiesto se ero disponibile a fare il quadro che sarebbe diventato la copertina del disco nuovo. Era martedì, serviva per venerdì. Io ho strabuzzato gli occhi e mi son messo a ridere».

 

E come avete risolto?!

«Prima di tutto ho cancellato tutti gli impegni della settimana (ride ndr) e mi ci sono messo giorno e notte. Il quadro era impossibile da fare in quei tempi, così ci siamo orientati su un lavoro grafico.

Loro avevano l’idea di assumere le sembianze di supereroi antagonisti, quasi come una gang criminale. Così ognuno di loro mi ha dato i riferimenti di diversi personaggi a cui volevano ispirarsi. Da lì non ho fatto altro che mescolare personaggi reali e riferimenti pop, nel mio stile, ed è nata la banda che avrebbe compiuto l’Attentato alla Musica Italiana».

Da persona non tatuata, ho una curiosità. Ormai da un po’ anche le persone sono le tue tele su cui disegnare. Avrai visto passare davanti a te tantissime storie: secondo te perché la gente si tatua?

«Nella mia esperienza ho individuato due categorie, anche se dicendo questa cosa penso farò storcere il naso ad alcune persone.

Da un lato abbiamo chi vede il tatuaggio come una questione viscerale e culturale. C’è la volontà di un riconoscimento culturale e una forte necessità di distinguersi, come nelle sottoculture dove il tatuaggio era espressione di rivincita sulla società e un simbolo identificativo.

Dall’altro troviamo chi vede il tatuaggio come uno status symbol, senza un significato specifico. Lo affrontano come se stessero comprando un paio di scarpe, entrano e non sanno nemmeno cosa sta per succedere. Eppure mostrare il tatuaggio di pinco pallino ti dà rilevanza e così te lo fai, magari anche solo perché vuoi sfoggiarlo d’estate. Ecco, questo meccanismo mi fa sempre un po’ spavento».

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