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Oltre 2mila fotografe da tutto il mondo raccontate da Patrizia Pulga

10-05-2022

Di Lucia Bertoldini

La prima volta che è stata a Istanbul ci è arrivata in autostop, con tre amiche. Da 12 anni lavora a un reportage sulla città perché incuriosita dalla sua trasformazione. Poi i reportage sulle campagne a sud dell’India, dove la prima volta è arrivata viaggiando su un furgone completamente via terra. E ancora Artisti Colorati, sugli artisti immigrati di seconda generazione in Italia, ma anche Frammenti Metropolitani, il progetto attraverso cui documenta il cambiamento del tessuto urbano e del concetto di vivere la polis, la città.

Recentemente è stato pubblicato il suo secondo libro Dizionario delle fotografe. Dall’Ottocento a oggi, in Europa e Nord America (Pendragon), che censisce 2370 fotografe europee e nordamericane dall’800 alla contemporaneità.

Patrizia Pulga è una fotografa bolognese, Charter Member di Women in Photography International nonché fondatrice dell’associazione Donne Fotografe, che raccoglie una cinquantina di fotografe professioniste italiane. Con i suoi reportage dall’Italia e dall’estero, dagli anni ’70 racconta la condizione delle donne in vari paesi del mondo, la realtà interculturale italiana ma anche gli sviluppi urbanistici delle città europee e statunitensi.

L’associazione organizza anche incontri ed eventi intorno a questi temi. I prossimi sono dal 13 al 28 maggio all’Archiginnasio con la mostra Scolpite. Riflessioni fotografiche intorno alla statuaria femminile che esplora il tema della presenza-assenza della donna nella statuaria pubblica. Sabato 14 maggio alle ore 10.30, invece, ci sarà un convegno sulle Riflessioni sulla rappresentazione scultorea femminile in cui parleranno l’antropologa Matilde Callari Galli, la storica dell’arte Silvia Evangelisti, la scultrice/fotografa Raffaella Benetti, con Silvia Zamboni come moderatrice. Qui altre informazioni sulla mostra.

Patrizia Pulga

Com’è nata l’idea di censire le fotografe contemporanee europee e come si lega agli ideali portati avanti da Donne Fotografe?

«Quando ho iniziato a fare la fotografa nella seconda metà degli anni ‘70, mi sono voluta documentare sulla presenza di altre donne fotografe nella storia. Ricordo di aver comprato vari libri, e l’unico che citava una donna fotografa era Storia avventurosa della fotografia di Wladimiro Settimelli (Effe, 1973). La fotografa in questione era Julia Margaret Cameron, che Settimelli descrive così: “non bella, sempre sporca di acidi e con le mani screpolate per il continuo maneggio delle lastre fotografiche dei bagni di sviluppo, la Cameron doveva essere tutt’altro che attraente”. Io mi sono legata al dito il fatto che una fotografa venisse ridotta al suo aspetto fisico più che al suo lavoro! Da quel momento ho iniziato a raccogliere tutti i frammenti di giornale che parlavano di donne fotografe: era una continua ricerca, culminata con un convegno sulle donne fotografe europee in occasione di Bologna 2000 Città Europea della Cultura.

Ma non mi sono fermata, e nel 2017 ho pubblicato Le donne fotografe dalla nascita della fotografia ad oggi: uno sguardo di genere (Ed. Pendragon). Il libro ha avuto un enorme successo, e questo ci ha spinto alla pubblicazione del Dizionario delle fotografe europee e nordamericane. Il numero di fotografe censite nel “Dizionario” è circa 2400. Si pensi che cinque anni fa era bastato un solo libro per censire tutte le donne fotografe a livello mondiale, ma la loro crescita esponenziale ha richiesto una necessaria divisione per poter pubblicare un nuovo censimento. Adesso, l’idea è quella di lavorare ad un libro dedicato solamente alle fotografe dei continenti extraeuropei».

 

Un libro sulle donne fotografe, in un mondo che è stato raccontato principalmente dagli uomini. Che si tratti di letteratura, poesia, cinema, fotografia, la narrazione è prevalentemente maschile. Cosa differenzia secondo te il modo di narrare di una donna da quella di un uomo a livello fotografico?

«Secondo me la differenza si vede molto nella ritrattistica, o comunque nelle foto dove sono presenti le persone. Infatti, lì si palesa lo sguardo di genere. Penso invece che nella fotografia di architettura moderna, che io porto avanti, non ci sia una grande differenza tra fotografi e fotografe. Ma il ritratto è diverso: le fotografe donne guardano le altre donne. E le donne stesse cambiano modo di stare davanti alla macchina fotografica se dietro a questa c’è una donna. Se io vengo ritratta da una mia simile, mi sento guardata senza giudizio e con un certo grado d’identificazione. Questo vale anche per le star: sto pensando ora a una foto dell’iconica Marylin Monroe fotografata da Eve Arnold. Per la prima volta vedo la foto di una donna e non di una star».

Cuba La Habana | foto di Patrizia Pulga

Hai detto che ti occupi anche di fotografare l’architettura moderna. Vorresti parlarci del tuo progetto Frammenti Metropolitani?

«Le città sono a misura di persona o di attività. Le nuove strutture urbanistiche che io chiamo “frammenti metropolitani” sono un agglomerato di abitazioni e uffici dove non c’è più una distinzione tra il fuori ed il dentro. L’attività lavorativa prevale sulla persona. In una città come Bologna, se guardo fuori dalla finestra vedo che la mia vicina ha steso il bucato, vedo che nell’appartamento del piano di sotto ci sono delle piante: intuisco che c’è vita. Nei nuovi agglomerati urbani non c’è nulla di tutto questo: gli edifici sembrano delle astronavi misteriose, e non si sa nulla di quello che accade al loro interno. Ci si sposta in massa verso questi centri direzionali per poter lavorare, e si ritorna a vivere in piccoli spazi incastonati nella città in espansione: la dinamica di questo pendolarismo diventa alienante. Qualche settimana fa mi trovavo ad Istanbul e questa frenesia mi ha veramente scioccata. La prima volta che me ne sono resa conto mi trovavo a Berlino una decina di anni fa, in compagnia di un amico architetto. La situazione mi aveva intrigato già allora e ho deciso di iniziare a documentare il cambiamento del tessuto urbano e del concetto di vivere la polis, la città».

 

A proposito di Istanbul, ho visto che ci lavori dal 2010. Che tipo di progetto stai portando avanti? Com’è cambiata la città nel corso degli anni?

«Ad Istanbul lavoro su un progetto strutturato dal 2010, anche se la prima volta che ho visto la città è stato negli anni ’70 con tre mie amiche. Avevamo viaggiato fino a lì in autostop. Avevo circa 26 anni, e ne conservo un bellissimo ricordo. Ai tempi, Istanbul rappresentava per noi qualcosa di esotico: la prospettiva con la quale guardavo la città allora è totalmente diversa da quella di oggi. Ci sono tornata spesso negli anni ’70. Dal 2010 ho cominciato un lavoro di reportage perché ero incuriosita dalla sua trasformazione. C’è stata una mutazione urbanistica di due tipi: da un lato una città sul mare ha necessariamente dei limiti di espansione, per cui sono state ampliate zone destinate a grattacieli ed uffici solamente dov’era possibile. Dall’altro lato la città ha vissuto un cambiamento d’identità dettato dal potere governativo: in piazza Taksim, la piazza principale, è stata costruita un’enorme moschea per volere di Erdoğan. Un altro edificio emblematico è Santa Sofia, passata dall’essere una chiesa ad essere un museo sotto Ataturk, fino a diventare una moschea sotto Erdoğan. Di fatto, Istanbul è una città profondamente contraddittoria, ed a me le contraddizioni hanno sempre intrigato.

E invece per quanto riguarda i progetti di Donne Fotografe, ho visto che hanno spesso un risvolto sociale (per esempio per portare attenzione sul tema delle donne in Afghanistan o sull’assenza delle donne dalla statuaria pubblica)».

Hassanatu, dal Ghana. L’Italia sono anch’io | foto di Patrizia Pulga

Secondo te la fotografia può essere considerata un’arte “politica”, con una finalità di denuncia sociale?

«La fotografia può essere tante cose: può avere una funzione anche solo documentativa. Ma come ogni immagine, come ogni parola e come ogni pensiero, non è quasi mai neutra. Le mostre che abbiamo portato avanti finora con Donne Fotografate sono state varie. La prima è stata Invisibile, sull’invisibilità non solo delle donne ma anche di certe categorie sociali come i migranti senza permesso di soggiorno. La seconda è stata Scolpite che arriverà all’Archiginnasio di Bologna in maggio. Scolpite racconta la rappresentazione di statue di donne, per lo più viste come vittime o come nudo. Durante la prima ondata da Covid-19 abbiamo raccolto fondi per un ospedale di Firenze. Più recentemente, siamo riuscite a raccogliere 11.000 euro per l’Afghanistan con la mostra delle fotografe afghane, realizzata in collaborazione con vari enti tra cui Emergency».

 

Tornando a te e ai tuoi progetti fotografici: qual è quello al quale sei più legata e perché?

«Ho fatto due reportage sulle campagne a sud dell’India, ai quali sono molto legata per i ricordi che porto con me di quei giorni. Per due settimane sono stata immersa tra gli indiani locali, ho viaggiato su tutti i mezzi di trasporto possibili per raggiungere diversi villaggi sperduti nel nulla. Dell’India ricordo che le campagne sono molto più pulite delle città. Del resto lì non c’è molto che inquina. In India ci sono stata otto volte, ed è stato il primo posto in cui ho fatto le mie esperienze come fotografa. La prima volta che ci sono andata l’ho fatto un po’ da “fricchettona”. Io e una mia amica abbiamo preso un passaggio da una coppia di francesi, e abbiamo viaggiato su un furgone completamente via terra. Allora si poteva, perché in Afghanistan non c’erano i talebani, e nonostante in Iran ci fosse lo Scià si poteva comunque andare. Era il periodo degli hippies e dei viaggi.

Un altro progetto al quale sono molto affezionata e che devo portare a termine è Artisti Colorati, sugli artisti immigrati di seconda generazione in Italia. Già dagli anni ’90 ho lavorato moltissimo sull’immigrazione, prima in Inghilterra e Francia, quindi in Italia. Fortunatamente oggi mi sembra di notare un miglioramento e un’integrazione crescente tra le persone di culture diverse».

 

Un’ultima domanda: perché è importante che le donne abbiano più visibilità in ambito fotografico e cosa possono fare per ottenerla?

«Da un certo punto di vista mi viene da ridere, perché adesso siamo quasi diventate “di moda.” Sono felicissima che alla Biennale di Venezia, curata da una donna, l’80 per cento delle artiste siano donne. Se stiamo diventando una moda, perché non cavalcarla?

Comunque non bisogna mollare mai. Da Julia Margaret Cameron sono passati più di 150 anni, e di strada ne è stata fatta tanta, soprattutto grazie alle prime fotografe che non si sono arrese. Ma non bisogna smettere di lavorare in questa direzione».

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