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Slipknot Last Song, il mockumentary nato dalle riprese con gli smartphone durante il lockdown

29-05-2023

Di Claudia Palermo

Sei personaggi chiusi nelle loro case, il ritratto di un’agonia ascendente che li porterà all’ultima canzone, lasciando comunque uno spiraglio di speranza.

Slipknot last Song è un mockumentary controverso, un tentativo di sperimentare sullo spettatore, attraverso un lavoro frutto delle riprese dei cellulari dei protagonisti stessi chiusi in casa per il lockdown.

La pandemia viene presa così come pretesto per analizzare le sfaccettature dell’uomo di fronte alle difficoltà in un periodo di solitudine forzata, diventa un modo per riflettere su noi stessi.

Martedì 30 maggio, alle 21.30, verrà proiettato al cinema Galliera il nuovo lungometraggio del regista Fabio Donatini, con la collaborazione del drammaturgo Antonello Grassi, Nicola Spaccucci al montaggio e Gloria Dardari, segretaria di edizione.

Si tratta del secondo capitolo di quella che sarà una trilogia sulla solitudine aperta da San Donato Beach.

I protagonisti, rispettivamente Andrea Pederzoli, Simone Mengoli, Ida Strizzi, Francesca Barra, Alan Giagni, sono guidati, attraverso piccoli momenti di regia, dallo stesso Fabio Donatini che si mette a nudo umanamente e professionalmente per tirare fuori la verità da ognuno di loro, tanto che alla fine, prima di lasciare quelle poltrone rosse, la domanda che potrebbe sorgere è: dove comincia la finzione e finisce la realtà?

Fabio, come possiamo definire Slipknot Last Song? È più di un semplice film o documentario.

«Negli Stati Uniti Slipknot verrebbe definito come mockumentary: una netta mescolanza tra momenti di pura realtà e momenti di pura finzione. Questa mescolanza ci ha permesso di restituire al meglio ciò che volevamo raccontare, ovvero evidenziare come i momenti alti, medi e bassi che ogni uomo vive quotidianamente, durante il lockdown si siano moltiplicati al cubo. Abbiamo capito l’importanza di filmare l’uomo compresso nella solitudine, di analizzarlo e cogliere gli aspetti tragici e comici che può accentuare la solitudine forzata. I personaggi nella loro verità fanno anche sorridere».

 

A proposito di personaggi, i protagonisti come sono stati scelti? Non sembra di avere davanti degli attori, ma delle persone reali nella loro realtà.

«Tra i protagonisti c’è chi ha fatto un po’ di teatro, chi è professionista e chi invece è semplicemente mio amico. Anche loro sono una vera e propria sintesi tra realtà e finzione. Il nostro lavoro è stato un tentativo di comprendere la solitudine attraverso degli esperimenti cinematografici».

Ogni protagonista ha contribuito al lavoro mandandoti diversi video che ritraevano la propria quarantena. A un certo punto del mockumentary sembra che qualcuno voglia gettare la spugna e non inviarti più materiale. Com’è andata veramente?

«È andata proprio come si vede e noi abbiamo anche utilizzato i momenti di difficoltà dei protagonisti. Per citare un esempio, a un certo punto Andrea Pederzoli non è più riuscito a recitare la parte di Nello, era distrutto. Abbiamo costruito il finale della storia in base ad alcuni momenti in cui Andrea non ha ritenuto opportuno continuare a recitare. La forza del documentario sta proprio in questo: chiudere un film con quello che si ha, a prescindere da tutto, e se va via un attore entra in scena il documentarista».

 

Ci sei anche tu tra i protagonisti, nelle tue stesse vesti di regista, quasi come fosse un backstage. Come mai questa scelta?

«All’inizio ho inviato le mie clip ai ragazzi per la necessità di fare da collante, per dargli un esempio da seguire e aiutarli a non essere menzogneri ma documentaristici. Mi sono mostrato come loro avevano paura di mostrarsi. Man mano che hanno capito il mio personaggio è cominciato a piacere a tutti e insieme abbiamo apprezzato che fossi io stesso a condurli verso un precipizio/salvezza, e che fossi io l’unico a rimanere incastrato nel labirinto di case chiuse dalle quali non si poteva uscire».

 

Sei una figura guida e a tal proposito parli anche di sensi di colpa nel film perché hai spremuto i tuoi attori per analizzarli fino in fondo.

«Ho provato davvero questi sensi di colpa. Se si vuole creare un certo tipo di racconto filmico come Slipknot, bisogna mettere in gioco anche la vita privata, e il senso di colpa fa parte di questa. Sono stato quasi completamente me stesso per essere il più possibile credibile e rendermi motore per gli altri».

Come possiamo interpretare questa “ultima canzone” presente nel titolo?

«L’ultima canzone è simbolo del momento in cui si tocca il fondo dal quale non si può che risalire, il momento in cui riusciamo ancora a darci una spinta verso l’alto, lontano dal peso di quest’ultima canzone».

 

Tecnicamente com’è stato montare insieme dei video girati da cellulare, quindi con una risoluzione e un formato non proprio tipici dei film?

«È stato faticoso. Una nota di merito va sicuramente a Nicola Spaccucci, alla sua capacità di mescolare i formati diversi dei cellulari, la differenza fotografica e l’assenza di un microfono. A me è piaciuto molto questo atteggiamento nuovo di usare sei diversi cellulari per un lungometraggio, perché hanno restituito fedelmente la poetica a cui ambivamo: se la vita è sporca e complessa non vedo perché il linguaggio con la quale la si descrive debba essere particolarmente curato».

 

E proprio quando sembra che tutti siano arrivati all’esasperazione, il finale riserva un colpo di scena…

«Non riesco a pensare a un film senza un finale che dia tracce di speranza, c’è già il telegiornale che devasta. Almeno il cinema dovrebbe riuscire a fare una carezza nonostante tratti tematiche cupe, e se questo film non riesce a far sorridere lo spettatore, almeno in parte, io ho delle responsabilità».

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