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I “Sociopatici in cerca d’affetto” siamo noi. Intervista a Michele Mellara

20-04-2023

Di Francesco Di Nuzzo

Sono già davanti al Dandy Caffè Letterario di via della Grada quando il dubbio mi assale. Lo aspetto dentro o rimango fuori? Dopotutto manca ancora un quarto d’ora all’appuntamento delle 10, forse è scortese entrare prima che l’ospite sia arrivato. O no? Dopo essermi deciso ed aver ordinato un caffè – il secondo della mattinata – mi accorgo che a uno dei tavoli è già seduto placidamente a leggere il giornale proprio Michele Mellara, regista e sceneggiatore bolognese che non solo è arrivato prima di me, ma che ha anche già finito di fare colazione.

(S)fortunatamente, entrambi facciamo parte di quel club esclusivo composto da ritardatari cronici, emotivi a molla e mentitori seriali che – guarda caso – sono anche il focus principale del suo romanzo d’esordio Sociopatici in cerca d’affetto, edito da Bollati Boringhieri e già disponibile in tutte le librerie.

Finito il caffè e scambiati i naturali convenevoli, inizia un’intensa chiacchierata in cui Michele mi apre le porte di un mondo ironico e amaro, che è a tratti una profonda analisi della società in cui viviamo. Sociopatici in cerca d’affetto raccoglie una galleria di personaggi insoliti, sospesi tra le pieghe di un’esistenza a volte amara, ma soprattutto, a ben guardare, comica. C’è chi è consumato da una passione bruciante per qualcuno o qualcosa, spesso portata alle estreme conseguenze; soggetti decisamente fuori dal comune; ossessivi compulsivi; paesaggi sghembi, dove a parlare sono oggetti inanimati o animali. In fondo, tutta la babele di personaggi del suo romanzo, da quelli che amano in modo totalizzante a quelli che si nascondono alla vita, è una realtà sempre presente, per dirla come Frankie hi-nrg “intorno a noi, in mezzo a noi. In molti casi siamo noi”.

 

Partiamo con una domanda di rito, come stai?

«Da sociopatico, insomma, non sto male! È un bel periodo intenso, sia per l’uscita del libro sia per altri progetti che mi coinvolgono insieme ad Alessandro Rossi, col quale co-scrivo e co-dirigo per il cinema, sia di fiction che cinema del reale (cinema documentario, per intenderci). Insomma, è un periodo intenso, vivo, pieno».

 

Com’è stato approcciarsi a un mezzo narrativo diverso da quello “filmico” a cui sei abituato?

«Il mio confronto con la scrittura per il cinema è un confronto costante, quasi quotidiano, perché in Mammut Film scrivo con regolarità con Rossi soggetti, trattamenti, sceneggiature. Però è verissimo che un conto è lo spazio della letteratura cinematografica, un conto è quello della letteratura tout court, della narrativa indipendente. Sono tornato a scrivere in solitaria più o meno sette anni fa, grazie a un incontro con Ermanno Cavazzoni, che è un amico, oltre che un autore che stimo. Parlando con Ermanno e facendogli leggere alcuni miei scritti lui mi ha sollecitato a riaprire una porta verso una scrittura privata. E così ho fatto, negli interstizi di tempo che mi lasciavano libero dal lavoro in Mammut Film e nelle notti, insonni – perché io godo di insonnia – quando si aprono gli spazi di creatività, di riflessione e di lavoro che durante il giorno, invece, mi sono preclusi. Ecco, in tutto questo spazio temporale mi sono rimesso a scrivere. Sociopatici in cerca d’affetto in realtà arriva dopo altri due scritti dei quali non ero particolarmente soddisfatto, ed è arrivato dopo una gestazione lunga, più o meno tre anni di scrittura».

 

E invece perché proprio i sociopatici? Perché scegliere questo mondo, questa realtà?

«Mi viene in mente una frase di Don DeLillo, il quale dice: “Siamo creature fragili, sottoposte a circostanze ostili. Io penso che tutti i miei personaggi rientrino all’interno di questa definizione, e quindi, sotto un certo aspetto, vivono un conflitto con la realtà, che sia quella sociale, familiare, professionale, lavorativa. La realtà confligge con le aspirazioni e i desideri dei vari protagonisti. Il titolo, Sociopatici in cerca d’affetto, dovrebbe essere un titolo umoristico che ben si sposa anche con l’immagine di copertina (che ha disegnato mia figlia). L’opera, all’interno di un alveo umoristico, ha una sua complessità.

Il libro è composto da quattro sezioni, ognuna raccoglie dei racconti, eccetto una (Tra le Orecchie) che è composta da dei monologhi con il medesimo protagonista. Ogni racconto può essere letto anche come una monade a parte. Allo stesso tempo, però, ogni racconto si intreccia, si specchia almeno con un altro racconto, a volte con più di uno; questo succede in una dimensione binaria, per cui il racconto è collegato a quello che lo precede, e, a volte in una dimensione più sottesa, camuffata, in cui è il lettore che deve trovare i riferimenti e i collegamenti tra le varie parti».

 

L’idea che traspare dal libro è che nonostante tutto sia sempre presente un senso di vicinanza nella sfortuna, perché in fondo “siamo tutti sulla stessa barca”, soprattutto quando in gioco ci sono le relazioni. Ma è davvero così?

«Indubbiamente dipende dai punti di vista, non dimentichiamoci il tono ironico e a volte scanzonato dei racconti, molti dei quali però celano anche dei tratti melanconici, molto amari. Tutti siamo vittime o figli delle nostre fragilità, delle nostre insicurezze, delle nostre idiosincrasie e conflittualità col mondo. Il libro è composto da una babele di personaggi molto diversi tra loro. Ma possiamo anche rintracciare un minimo comune denominatore: un senso di fragilità e inadeguatezza rispetto al mondo».

 

Tu pensi che questo senso di fragilità sia indotto anche dalla società odierna? Perché socializzare e confrontarsi con l’altro è una delle problematiche sempre più presenti.

«Guarda, hai toccato un punto cruciale. Sin dalle origini le persone hanno avuto problemi nel relazionarsi nel mondo in cui vivevano. Ovviamente ogni epoca ha dei tratti distintivi. La nostra ne ha degli specifici, pensa per esempio agli hikikomori, quelli che non possono uscire dalla propria stanza. E pensa anche a quante storie di solitudine, di emarginazione sociale vediamo sotto i nostri occhi quotidianamente. Però teniamo a mente che il mio libro non è un trattato sociologico e non è neppure un libro di antropologia culturale, è un’opera di narrativa; quindi, all’interno della narrativa prendo degli spunti dalla realtà per poi rielaborarli e renderli, spero, efficaci per il lettore utilizzando i mezzi propri della narrativa, quindi lavorando sul linguaggio, sulla prosa, sulla capacità di evocare delle situazioni e dei sentimenti».

 

Anche se fiction, non significa che questa non possa dare comunque uno spunto sul reale.

«Assolutamente. Federico Bertoni ha scritto un bellissimo saggio, Realismo e letteratura, un tomo di oltre 300 pagine in cui indaga la parola realismo in ambito letterario, ed effettivamente ogni volta che cerchiamo di mordere questa parola bisogna prestare una certa attenzione, perché dipende dall’epoca in cui viene utilizzata, dagli stili, dai generi narrativi nei quali compare. È verissimo che se un’opera di narrativa muove qualcosa nel lettore, sia a livello intellettuale che a livello emotivo, è uno specchio della realtà. Quindi, come dire, è una rappresentazione possibile della realtà. Non è una mimesi completa, ma a quella realtà comunque rimanda. E quindi, assolutamente sì, in questo gioco di specchi dovrebbe esserci parte del sapore letterario».

 

Quanto di te pensi che ci sia in ognuno di questi episodi?

«Penso di essere la summa di tutti i Sociopatici e mi riconosco in tutti».

 

C’è un racconto, tra quelli che proponi nel libro, a cui sei particolarmente legato o che semplicemente ti piace di più?

«Allora, sono tutti figli miei e quando guardi i figli, ovviamente, vuoi bene anche a quello con il naso storto. Principalmente percorro la forma del racconto breve, sono un fervente sostenitore dell’arte della sintesi e del riuscire a dire il più possibile con il minor numero di parole possibile. Ciò detto, arrivo subito a contraddirmi, nel senso che i due racconti lunghi, che, a mio avviso, girano bene in coppia sono: Colui che amava le donne e L’archivista. La stessa situazione vissuta da due protagonisti diversi. Sono due racconti ai quali sono particolarmente legato. Ma ce ne sono altri, ad esempio anche il primo che apre la raccolta, Amava nascondersi, mette in scena questa fragilità in modo evidente, che poi si ritrova anche negli altri pezzi. Anche Amava contar balle è un racconto a cui sono molto legato».

 

Ce n’è uno, invece, che ti ha dato fastidio scrivere, proprio perché il tema ti era particolarmente vicino?

«Forse questo non l’ho provato o l’ho provato sempre, che è la stessa cosa, nel senso che li sento tutti abbastanza vicini a me, con gradi di partecipazione variabile a seconda di ciò che ho scritto. Per me, comunque, scrivere coincide sempre con riscrivere, nel senso che quello che i lettori leggeranno è la sesta, settima versione di Sociopatici in cerca d’affetto. Quindi lo sforzo maggiore nel mio lavoro è legato alla messa a punto linguistica e formale dello scritto».

 

Cosa speri rimanga al lettore una volta letto questo libro?

«Spero che il lettore vi precipiti dentro, che possa sorridere, emozionarsi o rattristarsi. Spero che sia coinvolto anche da alcuni passaggi più riusciti nella prosa poetica, e quindi di entusiasmarsi anche un po’ rispetto alla lingua utilizzata, non solo al dato di realtà concernente il plot del racconto. È una lettura che consiglio di fare linearmente, cioè di partire dall’inizio e di arrivare in fondo, perché si godono più i dettagli di intreccio fra le varie parti del romanzo, però può essere letto anche a balzi, andando avanti nel romanzo e tornando indietro, rileggendo un racconto e poi procedendo sfogliando le pagine laddove ci porta la nostra curiosità».

 

Mi sembra che la questione della lingua, di come qualcosa viene raccontato, sia un aspetto molto importante del libro.

«L’immaginazione e la creatività sono fondamentali. Allo stesso tempo, però, per fare lavorare nel migliore modo possibile l’immaginazione all’interno del testo letterario bisogna confrontarsi con gli strumenti di quella disciplina. Questi strumenti sono, ovviamente, la morfologia delle frasi, il lessico, la sintassi, il colore, il timbro che vuoi dare alla scrittura. Tutti questi, per me, sono elementi sostanziali nell’elaborare e nello scrivere un buon libro».

 

Questo è il tuo romanzo d’esordio. Hai già in cantiere qualche altro progetto?

«Ho diversi progetti in ambito cinematografico insieme ad Alessandro Rossi. Per quanto riguarda la scrittura, invece, vorrei cercare di non perderla e di riuscire a mantenerla viva in una dimensione interstiziale nella mia vita, libera dal lavoro in Mammut Film, in uno spazio suo. Scrivere mi diverte, mi piace farlo, penso – forse con un pizzico di presunzione – di avere qualcosa da dire e forse di poterlo dire nel modo corretto. In fondo scrivere per me è un po’ come giocare a tennis, nel senso che per scrivere bene bisogna allenarsi, cioè bisogna praticare la scrittura».

 

Tu sei di Bologna, com’è il rapporto con la città?

«Ho vissuto con la valigia in mano per buona parte della mia vita. Ho vissuto per due anni a Londra, a Roma, città che continuo a frequentare per le necessità lavorative. Bologna però è la mia città, è una città nella quale mi sento a mio agio sia per un tessuto amicale molto stretto che mi lega a questa città, sia perché è una città – grazie anche all’università – non provinciale, che mantiene sempre l’occhio vigile su ciò che accade fuori. E poi è una città dalla quale si parte e alla quale si torna con estrema facilità; quindi, per un uomo che vive buona parte della sua vita con la valigia in mano è una città conveniente in cui stare».

 

Sei anche docente presso l’Università. Come si concilia l’insegnamento con i progetti professionali?

«Io sono un professore a contratto, gestisco un corso all’Università di Bologna di cinema-documentario, così come insegno anche in altre facoltà universitarie. Insegnare mi piace molto per una serie di motivi. Ti stimola la voglia di continuare a studiare, di prepararti su argomenti specifici; e ti dà la possibilità di confrontarti con nuove generazioni che hanno una anagrafe diversa dalla tua e che hanno punti prospettici diversi dai tuoi. Quindi se l’insegnamento funziona è sempre duale, insegnante e studenti ricevono entrambi. Io ricevo molto dai miei studenti quando esprimono i loro punti di vista, le loro opinioni, quando mettono in scena il loro immaginario, il loro simbolico. È una ricchezza che vorrei cercare di non perdere».

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