L’arte di stare dietro le quinte ha un che di sadico nell’era del protagonismo assoluto, dei like a tutti i costi, del successo istantaneo che ti travolge. Eppure c’è ancora chi sa stare dietro l’obiettivo di una macchina fotografica, senza desiderare di essere altrove.
Questo è il caso di Stefano Bazzano, giovane fotografo originario di Vibo Valentia ma trapiantato a Bologna da ormai dieci anni. Ha lavorato nel tempo a stretto contatto con la scena indie bolognese, su tutti Calcutta e Cimini, e non solo. Da diverso tempo si occupa anche della direzione artistica dei progetti. Scherzando dice che si sente “come la mamma che, prima di salire sul palco o di uscire di casa, ti mette a posto il capello e ti aggiusta il colletto”.
Un ragazzo umile sempre alla ricerca della luce del mare, del sole che riflette sulle case bianche. Dal mare alla pianura il passo è complicato e la nostalgia si fa sentire: “è una bellissima terra la mia, mi manca spesso. Quando posso ci torno, anche se per arrivare in Calabria ci metto lo stesso tempo e denaro che per arrivare a Sidney”, dice ridendo.
Ma Stefano è anche consapevole di essere in una delle poche città dove le persone “si prendono bene a fare le cose insieme” e questa sua consapevolezza l’ha portato a non mollare più Bologna.
Partiamo dalle origini. Com’è iniziata la passione per la fotografia?
“La passione ma l’ha trasmessa mio padre: ogni compleanno lo ricordo con quei cassettoni giganti per riprendere e fare le Vhs. È stato sempre fissato con tutto ciò che riguardava la fotografia e i video.
Da piccolo invece mi piaceva moltissimo guardare gli album di famiglia. Adoravo vedere quello che succedeva nelle foto, dietro i soggetti stessi, quello che rappresentavano e tutto quello che potevano ricordare. E nelle foto di famiglia spesso succede perché magari si scattava in momenti speciali o in viaggio e tutto quello che succedeva in quel momento, gli istanti prima e dopo lo scatto, mi hanno sempre affascinato”.
Si vede che tendi ad avere un animo riservato, a parlare poco di te.
“Ci tengo a stare dietro le quinte. Io lavoro per gli altri, non mi sembra il caso sia io la star. Quando lavoro con gli artisti mi sento come la mamma che, prima di salire sul palco o di uscire di casa, ti mette a posto il capello e ti aggiusta il colletto. Questo per me è molto divertente.
Anche per questo da un paio d’anni non faccio solo fotografia, ma mi occupo pure della direzione artistica e visuale dei progetti che mi vengono affidati. Mi permette di conoscere meglio gli autori, di entrare nella loro psicologia”.
A proposito di questo, sembra tu abbia un modo tutto tuo di lavorare con gli artisti. Sembra quasi che tu decida di viverci insieme per un po’.
“A prescindere, anche se non conosco bene l’artista, cerco di raggiungere questa situazione. Può suonare strano detto da un fotografo, ma in realtà a volte mi mette a disagio fotografare: farsi puntare dall’obiettivo di una macchina fotografica può essere percepita come una violenza e la gente, appena vede un obiettivo, sta in allerta.
Infatti quando devo fare un lavoro con qualcuno le prime volte difficilmente porto la macchina. Preferisco parlare, prendere qualche birra, avvicinarmi a livello umano. Ovviamente non è una cosa applicabile ogni volta perché ogni progetto ha le sue esigenze, però questa è la modalità che preferisco quando possibile.
Le fotografie in studio per me sono complicate. Anche se sono consapevole della loro necessità, in quei momenti ho sempre la sensazione di fotografare le statuine di Capo di Monte”.
Quali sono state nel tempo le tue figure artistiche di riferimento?
“Pensandoci, le persone che mi hanno ispirato di più nel tempo non sono fotografi. Per quanto riguarda l’estetica la mia prima cotta è Dario Argento, primo in assoluto per la composizione dell’immagine e l’uso del colore.
Per quanto riguarda la narrazione, Fellini è il mio punto di riferimento. Sono molto legato alla dimensione onirica e a due sogni in assoluto: quello di Otto e mezzo e quello di Boccaccio ’70 con Peppino de Filippo nell’episodio delle tentazioni del Dottor Antonio. Per me sono inarrivabili e li cito solamente senza raccontarli perché sarebbe uno stupro”.
Sul tuo profilo instagram sembra che ricorrano tre temi principali: il mare, il pesce e il bianco. Mi confermi questa sensazione?
“Un mio amico l’altro giorno mi ha fatto una battuta che mi ha fatto morire. Mi ha detto: ‘Oh, quando scrollo Instagram e mi compare una tua foto mi si scarica la batteria del telefono’.
C’è una spiegazione. Io sono nato al mare e sono innamorato dell’orizzonte, degli spazi enormi, della luce meravigliosa totalmente diversa dai contesti cittadini. Ci sono le case bianche che riflettono la luce d’estate in un modo tutto loro.
Il pesce, invece, è il mio cibo preferito. Per le foto legate al pesce squartato ho preso ispirazione da due scultori emiliano-romagnoli: Bertozzi e Casoni, due scultori della ceramica fenomenali. Hanno creato molti lavori sul mondo degli scarti davvero incredibili: tavolate pieni di sporcizia e immondizia, animali che ci camminano sopra, uova rotte e sigarette tutte in ceramica”.
Quindi nella terra della nebbia e dell’umidità soffrirai come un cane.
“In realtà penso di essermi completato, qui si sta bene per tantissimi altri motivi. Nonostante tutto mi piace anche la dimensione cittadina”.
Com’è nato il tuo legame con Bologna?
“Io sono arrivato a Bologna nel 2010 per quel mostro sacro che è il Dams. All’inizio ci arrivi perché è l’università di Pazienza, di Freak Antoni, di Eco, poi scopri che è anche tanto di più: ci trovi dei professori eccezionali, dei corsi fatti molto bene.
Ero il classico emigrante. Mi ricordo che appena arrivato in città, mentre cercavo casa in via del Guasto, avevo trovato un volantino che recitava: ‘No matricole, No Dams, no Calabresi’. Ero tutto quello che Bologna non voleva e questa cosa mi faceva molto ridere. Io non mi sono mai fatto intimorire, anzi è stato molto semplice inserirmi nell’ambiente bolognese”.
Cosa ti ha fatto restare tutti questi anni?
“Molti amici mi raccontano del loro malessere verso le altre città in cui si sente parlare di snobismo, che non si riescono a fare le cose insieme agli altri, in cui sono tutti classisti. Bologna per me ha sempre avuto uno spirito collettivo tutto suo: la gente si prende bene a fare le cose insieme. Penso che lavorare con gli altri sia fantastico. Se ognuno ci mette del suo, anche fra persone che pensano in modo molto diverso fra loro, si arriva a progetti molto più ricchi.
Qua a Bologna non è il paese dei balocchi, ma si lavora bene. Noto da un paio d’anni una sorta di fermento strano, che devo ancora inquadrare bene, ma che secondo me sta facendo crescere questa città dal punto di vista artistico”.
Tu hai collaborato soprattutto con la scena indie bolognese; c’è qualcosa che ti piacerebbe sperimentare o un mondo nuovo che ti piacerebbe esplorare?
“A me piacerebbe lavorare nel mondo della moda, anche perché sperimenta continuamente. La moda ti permette di esagerare, giocare, prendersi dei rischi. Nel tempo ha dettato le nuove linee del pensiero, dei modi di vedere.
Basti pensare alle fotografie di Scianna per Dolce e Gabbana negli anni ’80 o a quelle di Newton con le modelle ingessate, qualcosa di rivoluzionario per quel tempo. Fotografie che segnano cambi di passo a livello estetico e aprono degli squarci sul piano comunicativo e sociale, fino a quello politico.
La fotografia per me è comunicazione, è un testo, non è banalmente mostrare qualcosa. A me interessa mostrare delle idee, dei concetti, fare dei discorsi: le fotografie sono potentissime in questo”.
Siamo arrivati ad un livello di saturazione nel mondo dell’immagine? O c’è ancora spazio per dare un impatto con l’immagine?
“Ti dico una cosa un po’ da nerd della fotografia. Poco dopo la nascita della fotografia un signore che si chiamava Disderì si inventò un modo di fare le fotografie a basso costo: si chiamavano ‘carte de visite’, dei piccoli ritratti personali su cartoncino.
C’era chi si lamentava perché era diventata una moda così diffusa che tutti chiedevano, davano e ricevevano questi piccoli ritratti. Era già presente alla fine dell’Ottocento questa cosa: pensiamo sempre di essere saturi, ma non lo siamo”.
Quindi cosa servirebbe secondo te?
“Sicuramente ci potrebbe essere più consapevolezza: sapere che la fotografia è un testo, con tutte le sue lacune e le sue forze. Penso che la fotografia andrebbe insegnata nelle scuole: non tanto come funziona una macchina, ma come si legge una fotografia. Se una persona non ha consapevolezza di quello che vuol dire il testo fotografico, in un contesto pieno di immagini rischia di farsi travolgere senza gli strumenti di comprensione giusti”.
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