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“Tutto deve partire da un’ossessione”. Teatro Pereyra, il nuovo romanzo di Marco Visinoni

27-10-2022

Di Francesco Di Nuzzo

Un’isola della perdizione a largo delle coste spagnole, un ritrovo di maniaci del successo e tanta droga. Teatro Pereyra edito da Arkadia Editore è un libro che nasce da due ossessioni diverse. La prima è quella del suo protagonista, manager di una grande casa farmaceutica che, durante una convention di lavoro a Ibiza, si ritroverà suo malgrado a dover fare i conti con gli effetti della sua vita piena di eccessi. La seconda, invece, è quella del suo autore Marco Visinoni, scrittore originario di Iseo che non ha mai smesso di seguire la sua passione per la scrittura e la letteratura.

L’avevamo già raggiunto nel 2018 per l’uscita de Il caso letterario dell’anno (Arkadia Editore), un libro di fantascienza e una scrittura più sperimentale che ha lasciato spazio con gli anni a un crudo realismo.

Oggi ci siamo seduti (virtualmente!) con Marco per parlare un po’ di questo cambio di rotta, del suo nuovo romanzo, di libri e, ovviamente, di Bologna!

Intanto puoi spiegarci – senza spoiler! – il titolo e la trama del libro?

«Certo! Teatro Pereyra è un titolo che ha almeno un paio di significati. Fin da subito fa pensare al Pereira di Antonio Tabucchi, oppure a qualcosa che ha a che fare sia con il teatro che con la cultura. Però, quando ci si addentra nel libro, si scopre che si parla di un particolare altro tipo di “cultura”. Inoltre, il Teatro Pereyra è una ex discoteca di Ibiza che ora non esiste più. Era un locale storico molto bello, di certo non il solito posto enorme e tamarro. Quindi si prestava bene per questo gioco di parole che può sviare il lettore e fargli intendere tutto un altro tipo di storia e allo stesso tempo rivela quella che è l’ambientazione più importante.

Il libro parla di una azienda farmaceutica che organizza una convention ad Ibiza. Il nostro protagonista è un manager di punta dell’azienda che si occupa di promuovere farmaci, tra cui anche delle cose sperimentali che sono paragonabili a delle droghe. In un’isola in cui l’eccesso non solo è benvenuto, ma anche spronato, troverà il compimento del suo percorso. Il tema principale si sposa così con la location del Teatro Pereyra e allo stesso tempo rivela la colonna portante del romanzo: il protagonista viene da una vita di eccessi e di questi eccessi dovrà alla fine rispondere».

 

Come è nata l’idea dietro al romanzo?

«C’è immaginazione e storia vera, anche personale. Ho lavorato per anni in grandi aziende multinazionali e mi è capitato personalmente di partecipare a eventi come quelli riportati nel libro, dove tutta l’azienda si viene a trovare concentrata nello stesso posto. In queste situazioni si scontrano istinti abbastanza basici e, soprattutto, il desiderio di primeggiare trova il suo massimo compimento. Tutte le aziende che si basano su una forza commerciale – e in questo le aziende farmaceutiche non sono differenti dalle altre – spronano ovviamente al successo individuale, che in questi mondi è basato sul vincere mentre gli altri soccombono. Si alimentano così istinti ferini del surclassare il prossimo, di essere sempre al primo posto, ma anche di avere attorno a sé persone che ti riconoscono questa posizione. Il nostro protagonista è un maniaco del successo, che cerca non solo di primeggiare in questo sistema, ma anche il riconoscimento di questo suo essere fondamentale e insostituibile. C’è tanto di fantasia, ma l’idea è nata da spunti che mi è capitato di vedere molto da vicino».

Come definiresti questo libro usando un solo aggettivo?

«Probabilmente “autodistruttivo”. È proprio come se il protagonista fosse lanciato su un’auto in corsa dritto verso un muro. Anche se sembra essere distante, il muro prima o poi arriva, per quanto il nostro protagonista possa raccontarsi il contrario. Però capisco che lui non riesca a vedere questa situazione. Quando si è lanciati in questo modo all’interno di un meccanismo di auto esaltazione e che porta a cercare l’eccesso a tutti i costi, rallentare fa paura, perché significherebbe vedere il vuoto di quel percorso».

 

Sembra a tutti gli effetti una critica a questa realtà sociale.

«Definirla critica è probabilmente eccessivo, io cerco di vedere e di analizzare solamente quello che ho intorno e che rappresenta la verità, e questo romanzo – che è molto diverso dagli altri che ho scritto – rappresenta una parte della realtà che esiste, e quindi che va in qualche modo raccontata. Non mi spingo oltre perché il mio è solamente un modo di rappresentare una parte dell’animo umano. Quello che mi sta piacendo dalle prime recensioni è che un personaggio così disturbante, che dà molta repulsione, in realtà abbia creato una grande identificazione nei lettori. Io stesso mi ci sono riconosciuto molto, nonostante sia un personaggio dalle sfaccettature veramente molto dure. Sarebbe facile pensare a una sorta di critica da parte del lettore, ma se fosse onesto con sé stesso noterebbe in alcuni lati più bui del protagonista anche aspetti di sé stesso che magari ha paura ad ammettere. Ho scritto questo libro cercando di togliere non solo qualsiasi tipo di freno inibitore, ma anche di giudizio, e se il lettore facesse la stessa cosa si divertirebbe molto di più».

 

Hai pubblicato anche un manuale di scrittura, Come diventare uno scrittore di successo (La linea, 2012). Ma a scrivere si impara o è anche necessità?

«La mia risposta personale è che la scrittura nasca un po’ da sé, o meglio che nasca dal leggere tanto e dall’insistere molto nella lettura, soprattutto quando si è giovani. A me nacque abbastanza spontaneamente la voglia di scrivere racconti. Ogni scrittore poi trova la sua chiave. A me appassionano le storie complesse e quindi trovo più voglia nel mettermi a scrivere quando ho una sorta di struttura interiore che voglio raccontare piuttosto che quando ho un’idea incisiva che si può consumare in poche pagine. La scrittura può nascere da dentro, nel mio caso è nata dal leggere cose che ho pensato essere fantastiche e che magari potevo avere la capacità di replicare.

Il manuale che ho scritto è più che altro un manuale di promozione su come trovare un editore, come pubblicare e come promuoversi. È un’aggiunta alla risposta che ti ho dato, cioè non credo di essere uno capace di dare grossi messaggi su come si scrive. So quello che mi piace leggere e più o meno cerco di replicarlo quando scrivo. Se dovessi dare un obiettivo rispetto a quando mi metto a scrivere, mi piacerebbe scrivere il libro migliore che vorrei leggere. Ma non saprei cosa dire a un altro per farlo».

E quanto è difficile per uno scrittore, emergente o meno, imporsi nel mercato dell’editoria italiana, dove paradossalmente si pubblica tanto, ma si legge poco?

«Penso che la domanda contenga già la risposta. È sicuramente un mercato molto complicato, dove c’è più offerta che domanda e questo porta gli editori a rischiare poco. Io ho pubblicato sempre con piccoli e medi editori. Se noti, quella che è l’offerta dei grandi editori è normalmente dedicata a scrittori già affermati o a persone che si sono affermate in altri campi e che possono così garantire un seguito nel pubblico che normalmente non legge. Io non credo che la biografia di Ibrahimovic sia dedicata ad un pubblico di lettori. È complicato pubblicare se non sei famoso, è complicato arrivare agli editori giusti. Io ho pubblicato 5 libri in 20 anni, e sono uno che si prende il suo tempo. Quando non esce niente di mio perdo un po’ tutti i contatti, ma mi piace scrivere e quindi scrivo e basta.

Tutto deve partire dall’ossessione di dover scrivere qualcosa di buono pensando che magari sarai l’unico a leggerlo. E l’ho fatto quasi sempre. A 20 anni poi si ha una concezione un po’ romantica e si rischia di perdersi dietro a certe idee. Scrivere è un investimento perso nel 90% dei casi, però la passione non è quantificabile economicamente e neanche nella pubblicazione. La pubblicazione è stata una fortunata conseguenza. Più pragmaticamente, oggi ci sono molti altri sistemi e non è detto che l’editoria tradizionale sia quello migliore. È un mercato complicato, con una domanda molto specifica. Basta fare un giro in libreria per capire che senza lettrici non esisterebbe neanche il mercato. Gli uomini, oltre ad altri difetti, sono anche molto più assenti in questo mondo, quindi bisogna scrivere cose buone, non per avere dei vantaggi, ma proprio perché il mondo letterario è un mondo a sé».

 

Perché si dovrebbe leggere?

«Soprattutto negli ultimi anni ho percepito la lettura come un metodo per tenersi lontano da una certa sofferenza. Ci sono dei momenti in cui la testa è troppo pesante per quello che ci succede attorno, e la capacità di immergersi in un buon libro è una delle cose, come passeggiare in un bosco, che trovo confortanti. Al di là dell’allargamento degli orizzonti è anche la chiusura di pensieri troppo cupi».

 

E, in particolare, Marco Visinoni cosa legge?

«Devo dire che vado molto a momenti. Nel periodo in cui ho iniziato a scrivere mi piaceva molto la narrativa americana degli anni ‘70, mi piaceva molto Pynchon e mi piaceva molto un certo tipo di sperimentalismo. Il mio primo romanzo ne risente molto. Se non avessi avuto quel tipo di lettura non mi sarei messo in gioco come scrittore. Nella mia crescita ho poi abbandonato quella strada, e anche la mia scrittura non è più sperimentale, ma è molto più realistica. In generale mi piace la narrativa realista e profonda, che non vuol dire che sia pesante. Ci sono libri molto scorrevoli e piacevoli da leggere, e allo stesso tempo quando li finisci ci sei rimasto talmente dentro e ti hanno detto quelle due cose che non sapevi di te che poi dovrebbero aiutarti a sentirti un po’ meno solo e a muoverti meglio nel mondo. Di recente i libri che mi hanno colpito di più sono quelli di Rachel Cusk e di Olivia Lang».

 

Come si vive, invece, il rapporto con il pubblico?

«Il pubblico lo vedo alle presentazioni e nei riscontri che mi vengono dati dalle letture. Devo dire che è un rapporto piuttosto fedele e questo mi fa piacere, nel senso che ho un seguito che si è mantenuto abbastanza stabile negli anni. Non è un dato banale, perché questo libro è molto diverso rispetto al precedente. Ovviamente ci sono dei temi simili, però come questo è molto crudo e molto cruento, il precedente era una sorta di commedia surreale. Il fatto che il pubblico ti segua anche tra generi così diversi devo dire che è molto generoso da parte sua, e mi fa piacere. Quando non segui un filone narrativo ben preciso, non è detto che chi ti ha apprezzato finora possa continuare a farlo in futuro. Il rapporto con il pubblico lo definirei quindi così, di fedeltà da parte sua e di gratitudine da parte mia».

 

Sei nato a Iseo, nel bresciano, ma ora vivi a Bologna. Com’è il tuo rapporto con la città?

«Bologna l’ho vissuta da studente come la maggior parte della gente. Venendo dalla provincia ho trovato il tipo di cose e di intrattenimento che comunque Bologna sa offrire, allo stesso tempo sono rimasto perché l’apertura mentale e il clima culturale che si respirano in questa città sono difficili da trovare altrove. Soprattutto venendo da una provincia abbastanza chiusa mentalmente come quella di Brescia il contrasto è stato netto. Poi ci sono dei momenti in cui mi sembra che sia anche troppo, a volte è come se Bologna ti dicesse che non puoi permetterti di lasciare indietro certe cose come in realtà vorresti fare. Devi essere sempre al centro dell’attività e della vita e questo, a volte, può risultare ingombrante. Ma Bologna ha una capacità di mostrare angoli diversi della vita che non ho trovato altrove, si riesce sempre a captare qualcosa di straordinario».

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