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Tutto su Spike Lee, un regista “scomodo”

21-01-2019

Di Brando Sorbini

“L’opera di Spike Lee ha molto da dirci e tutti possiamo impararvi qualcosa, almeno a guardare oltre l’apparenza”.

Da sempre li chiama “joint” i suoi film, Spike Lee: termine di uso comune nel linguaggio americano per la sigaretta di hashish o marijuana, la “canna” diremmo noi, al punto che nei suoi titoli di testa appare sempre con fierezza la scritta “A Spike Lee Joint”.

Ma il joint di Spike Lee non c’entra nulla con tutto questo, egli ha da sempre ripudiato l’uso di qualsiasi droga, va bensì inteso come “comune”, un’unione di forze che non riguarda solo il regista ma tutta la troupe. Un’unione di forze che ha saputo creare cult come Fa’ la cosa giusta, Malcolm X e La 25ª ora, per dirne solo tre. E il suo ultimo, BlacKkKlansman, uscito nelle sale italiane il 27 settembre scorso, è stato osannato da pubblico e critica, ricevendo il Gran Prix Speciale della Giuria a Cannes 2018 e il Premio del Pubblico al Festival di Locarno 2018.

Voglio dire, alla faccia del semplice joint.

Abbiamo incontrato Lapo Gresleri, critico e storico del cinema, collaboratore esterno della Cineteca di Bologna, autore di saggi, articoli e recensioni pubblicati in volumi e riviste tra cui Cinefilia Ritrovata, Cineforum, Cinergie e Studi Pasoliniani. È presidente dell’associazione culturale Leitmovie ed infine autore del recente saggio Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana (Edizioni Bietti Heterotopia, 2018).

Si tratta della più completa monografia sul regista mai uscita in Italia, un’analisi dettagliata della sua intera produzione cinematografica, pubblicitaria e televisiva. Un libro che verrà presentato mercoledì 23 gennaio dalle 18 alla Libreria Coop Ambasciatori alla presenza dell’autore e di Roy Menarini e Michele Fadda.

Copertina di “Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana”

Come nasce questo progetto? E perché proprio Spike Lee?

“Quello di Spike Lee è un cinema ‘scomodo’, capace di guardare con distacco, ma mai con estraneità, alle grandi questioni irrisolte d’America senza moralismi né preconcetti, non schierandosi a priori bensì assumendo regolarmente un punto di vista critico che metta in evidenza i pregi e i difetti di entrambe le parti in causa, bianchi o neri che siano, ricchi o poveri, vittime o carnefici. Un gesto di grande intelligenza, che accetta il rischio di risultare fastidioso e sconveniente, di essere mal interpretato se non addirittura incompreso. È accaduto ad esempio con molta critica italiana, che troppo spesso ha frettolosamente liquidato l’autore quando invece Lee stava intraprendendo strade nuove per ampliare il suo discorso al contesto americano nel suo senso più ampio.

Contemporaneamente, il suo cinema si è fatto più ricco e stratificato, pieno di rimandi alla storia e alla cultura nera, ovviamente, e a quella americana che, se colti, arricchiscono notevolmente il narrato, facendo del film una sorta di grande contenitore di idee e messaggi da elaborare un po’ alla volta. È quanto ho cercato di fare: rileggere l’opera di un autore troppo bistrattato, ma da un altro punto di vista offrendo chiavi di lettura già insite nei film, che ne fanno gli specchi della cultura e dunque della società che li ha prodotti. L’opera di Lee ha molto da dirci e tutti possiamo impararvi qualcosa, almeno a guardare oltre l’apparenza ponendoci domande e cercando risposte che non accettino passivamente il punto di vista della maggioranza, ma che siano invece frutto delle nostre riflessioni, delle nostre sensibilità”.

 

Orgoglio e pregiudizio nella società americana. Come mai hai scelto proprio questo titolo per il tuo libro?

“Sono i limiti maggiori che minano il contesto multirazziale contemporaneo, non solo quello americano che resta comunque, nel bene e nel male, il modello delle contraddizioni insite su diversa scala nei nuovi scenari sociali europei. L’orgoglio delle proprie origini, che porta a chiudersi in una specifica comunità, piuttosto che aprirsi e creare così un vero tessuto multietnico fondato su una condivisione di esperienze comuni e non invece una giustapposizione di culture particolari forzatamente rattoppate tra loro.

La paura e l’ignoranza portano invece a vedere l’’altro’ come una minaccia, mettendo in evidenza solo le differenze e non le uguaglianze. Il pregiudizio è questo: il non voler guardare oltre il proprio naso, preferendo additare chi è diverso secondo paradigmi esclusivamente negativi, rifiutando piuttosto che cercando di capire”.

 

Quando Lee iniziò era un regista provocatorio e dalle posizioni radicali, incendiario nel rappresentare sullo schermo le sue istanze e la sua rabbia, penso soprattutto al finale di Fa’ la cosa giusta. Secondo te quanto è cambiato negli anni, se è cambiato?

“Non trovo che Lee sia invecchiato. I suoi primi film sono quasi più attuali oggi che allora e gli ultimi lavori non sono da meno, basta guardare all’etica provocazione di Oldboy, Il sangue di Cristo o Chi-Raq. A cambiare è stato invece lo stile. Se inizialmente le sue opere manifestavano l’urgenza espressiva giovanile di un autore impegnato e dal palese orientamento politico, ora si sono fatte più sottili, raffinate, frutto di una maturità non solo tecnica quanto soprattutto intellettuale. Come altrimenti interpretare la costruzione apparentemente equilibrata di BlacKkKlansman che esplode nella sequenza finale, rivelatrice del vero intento della pellicola?”.

Secondo te quale sarà il prossimo joint di Lee? C’è un argomento o una storia che gli sta particolarmente a cuore ma che ancora non è riuscito a raccontare?

“Lee è un autore incredibilmente prolifico. La media di un audiovisivo all’anno tra film, regie televisive, spot e videoclip non permette facilmente di prevedere come la sua opera proseguirà in futuro. Oltre alla seconda stagione di She’s Gotta Have It in arrivo per Netflix, le riprese dello spettacolo di Roger Guenveur Smith sull’ex-schiavo poi intellettuale e politico Frederick Douglass fanno pensare a un Lee in linea con una certa tendenza dell’odierna cultura nera. Un processo che, allontanandosi dal falso progressismo di eroici re africani difensori di antichi regni nascosti alla Black Panther, guarda alle proprie icone storiche e al passato comunitario con l’intento non di riscriverlo ma di renderlo patrimonio collettivo facendone, come per anni è stato appannaggio esclusivo dei bianchi, il soggetto principale di un immaginario condiviso radicato nella cultura nazionale”.

 

Progetti per il futuro?

“Molte cose bollono in pentola… C’è tempo per un’altra intervista?”.

 

Allora facciamo la cosa giusta, per dirlo alla Lee, e risentiamoci per il tuo prossimo progetto, al prossimo “Lapo Gresleri Joint”. Che ne dici?

“Mi sembra un’ottima idea”.

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