“Ti sto chiamando dal tetto di casa mia a Barcellona, sto costruendo una casetta di legno”.
Questa è la fine della mia conversazione con Mattia Insolera, fotografo documentarista, bolognese di nascita e spagnolo di adozione, con all’attivo numerosi prestigiosi riconoscimenti: un libro fotografico che documenta l’erculea impresa di ritrarre il volto sconosciuto del Mediterraneo, durato sette anni, ed un nuovo progetto AiLatiDItalia che arriverà a Bologna in primavera.
Insolera inizia a fotografare nel ’97, dopo la maturità, durante un viaggio in India. Poi nel ’99 la prima collettiva con Davide Tranchina alla galleria di Daniela Facchinato, mentre nel 2003 vince il premio Iceberg con foto di Cuba che vengono viste da Vasco Rossi e lo portano in tour nel mondo della fotografia musicale. Ma non dura molto, “non era la mia vocazione, a me interessava fare fotogiornalismo, reportage” mi dice.
Dal 2004 Mattia è rappresentato dall’agenzia Grazia Neri, e nel 2007 si trasferisce in Spagna. Nelle sue opere si rivede la fotografia emozionale del panorama di Ghirri, ma con un focus traslato sulle persone, con un deciso taglio sociale. “Nel 2008 ho lavorato sulla normalizzazione dell’omosessualità in Catalugna, ho fatto foto ad una coppia di padri gay che ha vinto il World Press Photo Award” mi racconta.
Mattia continua a pubblicare in tutto il mondo e inizia a ricevere finanziamenti dal governo autonomo della Catalogna, Compagnia Grimaldi e la fondazione Caixa. Parte così nel 2009 il progetto nomade di 6th Continent, durato 7 anni, che affiancato da un crowdfunding, diventa una mostra itinerante ed un libro con oltre 100 fotografie, curato da Arianna Rinaldo.
“Stavo via sei mesi all’anno. Volevo fare un progetto sul Mediterraneo toccando più paesi possibili, viaggiando in mare. I miei soggetti erano le persone che vivono il mare” dice. Mattia ha toccato 13 Paesi del Mediterraneo, percorrendo 25 mila km in moto e 15 mila miglia marittime per rendere omaggio al Mediterraneo come “sesto continente”, capace di legare diverse culture.
Il nuovo progetto AiLatiDItalia lo definisce invece multi-mediatico. Finanziato da una cordata di produttori di prodotti agro-alimentari, è una sorta di giro d’Italia scandito da 25 prodotti agroalimentari di nicchia. “Una collezione di storie brevi – mi dice – con un taglio antropologico, per niente commerciale. Il prodotto è un pretesto per parlare di cultura, è il MacGuffin dei film di Hitchcock, che è il motore dell’intreccio ma alla fine è l’intreccio di sentimenti umani”.
Il progetto, continua, “è un indicatore di biodiversità in Italia (nato da un’idea del 2013) perché dopo anni che vivevo all’estero mi sono reso conto di come vedevo l’Italia, ovvero di cosa la rende unica e diversa da tutti gli altri paesi”. Ne uscirà un ciclo di mostre ed un libro fotografico a primavera 2019.
Mattia si definisce visual storyteller. “È una definizione che prende dentro più cose, dal video all’aspetto cartografico. Per AiLatiDItalia tutte le mappe le sto facendo io, e poi uso il testo come elemento grafico, ed in parallelo il racconto visivo di brand marketing”.
Cosa è cambiato negli anni in questa professione?
“È cambiato tutto, è cambiato il mondo attorno. Non mi interessa più pubblicare sui giornali, nessuno li legge e pagano delle cifre offensive. Ho sempre cercato di farmi finanziare i progetti da enti pubblici e privati e adesso sono in una fase di transizione, nel senso che faccio anche molto video”.
Con il video che ha sempre più peso nel mercato, rimane rilevante fare still image?
“Secondo me si, l’immagine fissa è sempre rilevante perché il cervello ricorda immagini fisse, lascia il tempo di guardarla, memorizzarla, rifletterla e poi riesce a ricordarla. Mi sembra che le persone siano talmente bombardate da immagini e oggi tutti pensino di essere fotografi”.
Che cosa differenzia la professionalità ad oggi quindi?
“Innanzitutto, in fotografia l’opera è la serie, non la foto singola, per cui sono tutti bravi a fare una fontina accattivante con il telefono, ma riescono ad articolare una frase di foto? Perché la fotografia funziona esattamente come il linguaggio scritto, c’è un’inizio di frase, un verbo, oggetto e predicato, c’è la foto-virgola e la foto-punto che conclude un discorso. Ti faccio un paragone: tutti scriviamo, un modulo, una firma, una email, ma non tutti pensiamo di essere scrittori. Questa consapevolezza di usare un linguaggio non c’è, e soprattutto non vedono più la differenza tra una foto scattata con il telefono e una foto scattata con la testa”.
Chi sono gli artisti che ti hanno ispirato, dagli inizi ad oggi?
“Quando ho iniziato, i classici: Capa, Bresson, Salgado, sono i primi che ho conosciuto. La mia conoscenza della fotografia negli anni ’90 era limitata ai libri che aveva Feltrinelli a Bologna, non c’era internet! Essendo io fortunato potevo viaggiare nelle grandi capitali come New York, andavo nelle librerie e i libri che trovavo erano il mio orizzonte fotografico.
Mi cita Michael Ackerman, “quando sono passato al colore nel 2002″ e continua con Philip-Lorca DiCorcia: “tutt’ora la mia ispirazione principale. E quindi ho iniziato ad usare il flash separato dalla macchina per drammatizzare la realtà. Poi devo dirti la verità, da un certo punto la mia ispirazione è venuta da altre forme di espressione artistica, e considero che sia meglio perché se ti ispiri alla pittura per fare fotografia sicuramente la tua foto sarà più originale. Ma vale anche per la musica, la letteratura, soprattutto il cinema classico noir anni ’40 – ’50, tipo Viale nel Tramonto di Billy Wilder, Orson Welles e Fritz Lang, che si ispirava a sua volta all’espressionismo tedesco della repubblica di Weimar”.
Parliamo di tecnicismi, Mattia mi dice che nel suo travel kit ha una Mirrorless, Sony alpha 7r con ottiche 85mm f1.4 e 50mm, flash con telecomando. “Faccio di tutto per non usare il grandangolo, troppo illustrativo, io scatto sempre frontale con l’ 85 mm, perché ha una resa prospettica più schiacciata e porta l’attenzione dove voglio io”. Gli chiedo del lavoro sulle foto in post produzione, e mi risponde ridendo “le tocco molto ma poi sembra che non ci abbia fatto niente!”.
Hai dei rituali per la vita on the road?
“Mi sveglio molto presto la mattina, fotografo all’alba e dopo pranzo faccio una siesta, mi porto sempre dietro un’amaca. E poi cerco sempre di non fare autostrade, è un po’ come viaggiare in aereo non ti accorgi dei posti in cui stai passando. Quando i tempi me lo permettono, cerco di avere l’attitudine del flaneur”.
Adesso ti capita di fare una fotografia per puro piacere, distaccandoti dall’ottica lavorativa?
“Sto ricominciando a farlo, però sono più appunti visivi, oppure sono “fotosemi” (traducendo dallo spagnolo) vedi qualcosa di interessante e lo fotografi perché potrebbe essere una serie, sempre per il discorso che in fotografia se non fai in serie stai facendo parole sciolte al vento”.
Considerando che vivi fuori da tanto tempo, che rapporto hai adesso con l’Italia?
“Ci torno per lavoro. Con AiLatiDItalia mi interessava fare un discorso sulle eccellenze e non parlare sempre male dell’Italia. Tutto quello che è mercato editoriale si sta spegnendo rapidamente, producono più giornalismo le imprese che i giornali, è un po’ un paradosso quello che sto dicendo, eppure l’impresa illuminata ti dice: fammi un racconto vero, documentaristico, su quello che facciamo, con più libertà di un giornale che spesso ti fa fare solo una marchetta. Il marketing oggi apre la possibilità di parlare di sociale, di umano”.
Con alle spalle già una carriera che vanta numerosi premi dove metti ad oggi la tua asticella di soddisfazione professionale?
“Direi che il mio livello di soddisfazione non dipende dalla professione”.
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